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Si è aperta in modo eccellente la stagione sinfonica del Teatro Comunale di Bologna

Vincono Valchua e la Fura dels Baus

servizio di Roberta Pedrotti

Pubblicato il 16 Gennaio 2013

130116_Bo_00_ValchuaJurajBOLOGNA - L'idea moderna di concerto multimediale non è, in realtà, invenzione recente. A ben guardare è il concetto di musica assoluta, avulsa da un contesto sensoriale più articolato, a essere storicamente più circoscritta e, paradossalmente, non aliena da quell'evoluzione sinestetica che dal decadentismo sembra portare alle avanguardie, al lavoro di Kandinskij sul rapporto fra suono e colore, al futurismo e alla fascinazione per il nuovo mezzo cinematografico, ben più di una semplice evoluzione delle musiche di scena per il teatro di prosa.
Nel momento in cui la fruizione della musica, di certa musica, passa dalla fantasmagoria delle feste di corte all'auditorium, la comunione fra l'udito e gli altri sensi cambia di prospettiva e il concerto “visivo” rappresenta un unicum, un esperimento, benché l'arte dei suoni, in realtà, non possa prescindere da un complesso di riferimenti ben più articolati – sensoriali, iconografici, letterari, ideologici – in cui è contestualizzata. La trilogia romana di Respighi, non è dunque solo uno scintillante modello di virtuosismo orchestrale, un trittico illustrativo di indiscutibile impatto, è, nel bene e nel male, anche nella sua inevitabile parzialità, un ritratto di un'epoca. Vive di citazioni e riferimenti i più disparati, da Puccini a Mahler (anche per le allusioni extra colte, fra il folklorico e il commerciale), da Rimskij Korsakov e Musorgskij a Strauss e Stravinskij, con passaggi al limite della citazione letterale, eppure così ben concatenate da fare di questo stile eclettico uno stile unico, definito nella sua pluralità. Perché questa è la pluralità, l'ambiguità dell'Italia fra le due guerre, a cavallo della Marcia su Roma, un'Italia ricca di slanci ideali e intellettuali soffocati poi dalla dittatura, sospesa fra avanguardia e strapaese, in cui storia e cultura presentavano alla retorica anche l'opportunità del loro rovescio esiziale, per cui non solo l'ignoranza equivale alla forza, ma ad essa si accompagna per fingersi altro da sé e legittimare il potere in un'aura di rispettabilità. Il timido Ottorino, adottato da un regime cui formalmente non aderì, ma di cui comunque interpretò una certa forma di classicismo e conservatorismo artistico, legge e fotografa il suo mondo. La traduzione in immagini sembra sia nella stessa vocazione illustrativa di questo triplice poema sinfonico, ma con l'imperativo di evitare un'associazione puramente didascalica.
Proprio da questo punto di vista l'allestimento della Fura dels Baus che ha aperto la stagione sinfonica bolognese si rivela vincente. La scelta iconografica è innanzitutto sofisticata, perché rispecchia l'eclettismo d'ispirazione della musica e nel contempo segue dei temi conduttori che arrivano a costruire una sorta di drammaturgia sottile, intuitiva, onirica ma ben strutturata. Abbiamo il classico e l'esaltazione scultorea del corpo nella duplice accezione classica (il marmo prende vita e si fa carne danzando anche sensualmente fra gli zampilli) o viceversa nella visione d'un colosso che ricorda deliri imperiali e il banale superomismo dannunziano. Il corpo torna anche al tema  espressionista e fauve del nudo nella foresta, che si declina attraverso il mito di Dafne, illustrato attraverso un breve filmato per essere poi reinterpretato da ombre, coreografie astratte che confondono la figura umana con la vegetazione fino alla marcia un po' ironica un po' inquietante (il passo rigido è un po' quello dell'oca) dei pini, uomini disumanizzati che hanno perso anche il contatto panico con la natura, sulla via Appia, presumibilmente verso Roma. Il turbamento è insinuato con leggerezza, senza essere un atto d'accusa che parrebbe decisamente fuori luogo per questa partitura disimpegnata, per un compositore adottato dal regime, testimone della sua ascesa, ma non compromesso, e scomparso quando ancora l'ascesa violenta non si era macchiata dei crimini più inumani.
D'altro canto il richiamo alla Natura, panico e quasi neopagano, si sposa a una celebrazione dell'Urbe che ne abbraccia diverse anime, con un momento davvero poetico nell'ultima festa romana (La Befana), quando le vie deserte del centro si animano di fantasmi cinematorafici che ormai sono un tutt'uno con la Città eterna che li ha ispirati e ospitati: Rossellini, De Sica, Sordi, Fellini, commedia e tragedia, neorealismo e fiaba, o invenzione. Questo movimento, una sorta di delicato omaggio incastonato in un più ampio disegno di allusioni e narrazioni, resta forse il capolavoro della serata, anche se tutto il lavoro visivo della Fura (in questo caso nella persona di Carlos Padrissa come ideatore principale) procede ricca di richiami iconografici, come certi moti futuristi che rievocano anche gli effetti delle primissime pellicole girate a Cinecittà (e come non pensare anche al capolavoro L'inferno, prodotto nel 1911 a Milano, ma di fatto una pietra miliare di tutto il cinema italiano degli esordi).
Altro momento da ricordare è quando le proiezioni tacciono e sul velario posto fra noi e l'orchestra restano solo tenui luci che dal basso amplificano sagome intrecciate di strumenti e strumentisti con effetto invero suggestivo per i Pini presso una catacomba, che richiamano così alla presenza umana non solo attraverso l'interpretazione grafica, ma soprattutto attraverso la realtà viva accanto a noi, così come quando lo stesso velario che moltiplica le proiezioni e quindi l'amplificazione tecnologica dei sensi è azionato a mano, ricordando dunque il ruolo fondamentale della fisicità, del lavoro, dell'artigianato nel teatro. Il gesto dell'uomo che manovra il tiro con gesto sicuro resta nella memoria e completa lo spettacolo, così come la presenza ambigua, ora celata ora improvvisamente riscoperta e riportata al centro dell'attenzione di chi la musica, concretamente, la fa. Ombre al servizio dell'arte, ma per questo ancor più vive. Le conduce Juraj Valchua, che coglie un approccio non retorico ma nemmeno inutilmente intellettualistico. Non cerca finezze e sottigliezze che prosciugherebbero la reale natura di quest'opera, ma nemmeno si adagia appagandosi dello sfolgorio di colori e virtuosismi orchestrali che pure potrebbe abbagliare. In sostanza contribuisce a una lettura convincente che si sposa perfettamente con il viaggio iconografico e metafisico proposto dalla Fura dels Baus, che, libera di creare una propria drammaturgia senza vincoli teatrali e narrativi dà il meglio di sé, nel suo stile parimenti eclettico, ora delicato ora quasi pop e postmoderno.
Al concerto, che richiama un pubblico variegato alla prima e per il quale si è anche programmata una replica straordinaria a ingresso gratuito riservata agli studenti, ha arriso un meritato successo.

Crediti fotografici: Fototeca gli Amici della Musica.Net (foto di repertorio)
Nella miniatura in alto: il direttore Juraj Valchua






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