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Il capolavoro romantico di Verdi ha aperto la stagione lirica del Teatro Comunale Abbado

La Traviata con le emozioni

servizio di Athos Tromboni

Pubblicato il 10 Febbraio 2018

180210_Fe_00_LaTraviata_AlessioPizzechFERRARA - Debutto della stagione lirica 2018 senza lode e senza infamia per La traviata di Giuseppe Verdi nel Teatro Comunale Claudio Abbado, venerdì 9 febbraio 2018. Lo spettacolo, coprodotto dai teatri di Treviso, Rovigo e Ferrara, ha avuto dei pregi e qualche difetto, che a parere del critico potrebbero essere questi: elenchiamo i pregi cominciando dalla bella prova del soprano Gilda Fiume, una Violetta affranta dalla solitudine e dal presentimento della morte, più che tormentata dal male incurabile; la Fiume ha grande stoffa d'attrice e buona prestazione di cantante. La sua vocalità le ha permesso di percorrere il primo atto con sicurezza e bella intonazione; e se il fatidico Mi Bemolle della fine del primo atto è stato da lei stiracchiato, più che modulato, resta la bella prova affidata alle agilità percorse con naturalezza e ben timbrate; la sua emissione è omogenea nella zona del medio e in zona acuta, un po' carente nel grave dove la voce tende a sbiancare e perdere d'impostazione. Tutto ciò nulla toglie alla sua positiva prova, che è cresciuta soprattutto nel secondo atto, diventando ottima nel terzo atto.
180210_Fe_01_LaTraviata_phPiccinni
Il tenore Leonardo Cortellazzi, nel ruolo di Alfredo Germont, si era già messo in evidenza a Ferrara, nell'aprile 2017, come uno dei migliori protagonisti dell'opera Alceste di Christoph Willibald Gluck: il suo approccio vocale con il giovane amoroso della Traviata lo ha visto incassare il primo applauso a scena aperta della serata, non dopo il celebre "Brindisi" (che è stato accolto con un atteggiamento più gelido che fraddo dal pubblico che gremiva il teatro), ma dopo l'aria d'apertura del secondo atto, Dei miei bollenti spiriti.
Indubbiamente il ragazzo ha doti di omogeneità timbrica in tutti i settori del registro, e quando sale all'acuto dimostra di saper ammorbidire, padroneggiando una buona emissione del canto "in maschera"; poi è attore molto bravo e fraseggiatore che ricorda la tecnica nientemeno di Alfredo Kraus. Farà una bella carriera.
La sorpresa più felice è venuta dal baritono Francesco Landolfi (Giorgio Germont) per la prima volta a Ferrara: voce brunita e morbida che però sa rinforzare quando l'espressione da elegiaca o contrita deve diventare impositiva e truce; ottimo nel canto legato e bravo attore, ha saputo dare alla figura centrale di papà Germont una credibilità drammaturgica oltre le note di arie (ben eseguite) come Di Provenza il mare e il suol e Pura siccome un angelo; anche nei duetti con il soprano si è mostrato attento all'interpretazione e in grado di dosare il proprio canto rendendolo non solo armonico con la voce femminile, ma anche dinamicamente coeso; e così Landolfi è stato il più applaudito fra i tre protagonosti, sia a scena aperta che alla fine dell'opera.
Plauso anche ai comprimari: Arianna Cimolin (Annina) che il regista ha previsto come personaggio sempre presente al fianco di Violetta Valery, serva pronta ad offrire il fazzoletto ad ogni sbocco di sangue della protagonista, ma anche figura emblematica di un amore parentale (materno?) che non è dato nel libretto ma che può essere idealmente imposto senza peccare di incoerenza drammaturgica.
E poi, Valentina Corò (Flora Bervoix), Diego Rossetto (Gastone), Michele Soldo (Douphol), Fabrizio Zoldan (D'Obigny), Zheng Jihan (Grenvil), Andrea Biscontin (Giuseppe) e Luca Scapin (un Domestico / un Commissario). Tutti all'altezza del compito.
E veniamo al "qualche difetto" della messinscena: il coro è apparso troppo debole per l'impegno richiesto dalla musica del primo atto, e del terzo atto: pochi coristi in scena hanno fatto del coro verdiano, sempre imponente, un coro da camera, dove le sezioni mettevano in evidenza tutta la debolezza dinamica di una tale soluzione (imposta dal budget?) e dove i fuori-tempo di qualche corista non coperto dalla massa delle voci si è evidenziato come "un guaito nel Credo" (direbbero i nostri nonni ferraresi). Ciò sia detto senza disconoscere, comunque, il lavoro del maestro del coro, Francesco Erle.

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Poi la concertazione di Francesco Omassini: molto attenta ma anche molto cauta, quasi che la musica dovesse solo lanciare l'intonazione dei cantanti mettendo in secondo piano l'accompagnamento delle voci: se questa è stata una pecca, ha però avuto due vantaggi: l'eliminazione dei rischi connessi al pugno saldo del direttore-interprete; e la libertà formale concessa alle voci di melodizzare ed essere protagoniste in ogni inflessione, dal canto a fior di labbra a quello spinto e fiorettato. Obbediente ma "senza lode e senza infamia" di conseguenza la prova dell'Orchestra Regionale Filarmonia Veneta.
Detto dei costumi, belli, delle scene scarne ed essenziali di Davide Amadei, e delle luci, ottime, di Roberto Gritti, resta da dare un parere sulla regia di Alessio Pizzech: questo regista è già stato presente a Ferrara per altri allestimenti e le nostre cronache, consegnate agli archivi e alle rassegne-stampa, non furono clementi con lui. Stavolta diciamo invece che per questa Traviata, Pizzech è stato geniale ma incompreso. Geniale agli occhi del recensore, perché ha immaginato di rappresentare non i personaggi nella loro fisicità, ma nelle loro emozioni. I personaggi hanno una dignità, una impertubrabilità, una debolezza o una graniticità che li fa sembrare reali e veri: il dolore si esprime con le lacrime o con i singulti. Le emozioni - per contro - non hanno né dignità, né crudeltà, perchè quelle caratteristiche sono espresse nelle azioni fisiche, non nei sentimenti immateriali. Le emozioni sono pure vibrazioni e rimangono in parte nascoste, non manifeste; ciò che lasciano emergere è sempre la mediazione fra la loro purezza animale e la remora della ragione che ne mitiga l'animalità. Facciamo un esempio per chiarire il concetto: Violetta Valery può essere disperata ma il suo atteggiamento può essere dignitoso; in Pizzech, la Violetta delle camelie è quasi sempre prostrata a terra o sul divano o sul letto; ha sbocchi di sangue ad ogni minima emozione. Non ha dignità quel suo apparire, sembrare, porgersi; perché il regista ci racconta non l'atteggiamento fisico, ma l'emozione nascosta e animale; emergono le sue vibrazioni interiori, non il suo comportamento pubblico e mediato. Così dicasi di Alfredo Germont, tanto per fare un altro esempio: anche lui a volte è prostrato, a volte incandescente in piedi sul letto bianco; perché viene rappresentato in scena il suo morale, che è a terra, o agitato all'estremo; mentre, invece, se venisse rappresentato il suo atteggiamento - così come drammaturgicamente intende il libretto - sarebbe sempre impettito, iroso, magari curvo di spalle nel pentimento, ma soltanto curvo, non prostrato nella polvere. Potremmo continuare, ma fermiamo qui il ragionamento ribadendo che la regia di Pizzech è geniale.

180210_Fe_03_LaTraviata_phPiccinni

Ma è anche incompresa... perché è molto intellettualistica, raffinata, letterariamente mutuata non solo dal libretto di Francesco Maria Piave, ma anche dal romanzo ispiratore di Alexandre Dumas figlio e dal dramma in prosa che lo stesso Dumas trasse dal proprio romanzo cambiando il finale. Quando lo spettatore non è in possesso di tutte queste conoscenze e si trova davanti una regia come quella di Pizzech, rimane freddo e il più delle volte si rifugia nella fatidica frase: "Sì, d'accordo essere originali a tutti i costi; ma io preferisco una regia tradizionale". E qui sta il punto discrasico fra il regista e il pubblico: perché Pizzech non è stato affatto "originale a tutti i costi", è stato geniale. Ma incompreso.
Replica domenica 11 febbraio ore 16.

Crediti fotografici: Foto Piccinni per il Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara
Nella miniatura in alto: il regista Alessio Pizzech
Sotto: la protagonista Gilda Fiume (Violetta Valery) e Leonardo Cortellazzi (Alfredo Germont)
Al centro e in fondo: due panoramiche sull'allestimento di questa Traviata






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