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L'operina giocosa di Offenbach e il dramma siciliano di Mascagni insieme in un dittico

Un marito alla porta. Un amante ammazzato

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 13 Febbraio 2019

190212_Fi_00_UnMariALaPorte_CavalleriaRusticana_ValerioGalliFIRENZE - Il tema delle “corna” (e, in generale, dell’infedeltà più o meno celata) è sempre stato molto in voga nel repertorio melodrammatico, facendo degli intrighi amorosi uno degli elementi portanti nelle trame operistiche. Elementi che talvolta fanno rima con puro divertimento, talaltra diventano fattore drammatico, oltre che drammaturgico.
In una fredda serata invernale, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha accolto proprio questa doppia visione dell’intrigo amoroso, dapprima con l’approccio scherzoso e quasi inverosimile dell’operetta di Jacques Offenbach, Un mari à la porte, e poi con l’arcinota Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Un dittico inedito per i nostri teatri, la cui regia porta la firma di Luigi di Giangi e Ugo Giacomazzi (coadiuvati da João Carvalho), con le scene, di Federica Parolini, costumi di Agnese Rabatti e luci di Luigi Biondi.
A una prima impressione l’accostamento fra i due titoli potrebbe risultare ardito, ma l’esito si rivela complessivamente piacevole. Per il titolo più “frivolo” di Offenbach la scelta vira su un allestimento improntato alla gaiezza dei colori, che rifulgono sia nei costumi, sia nell’unico ambiente scenico: una camera da letto al cui centro troneggia un grande camino, dal quale prende avvio tutta la storia. Movimenti frizzanti e gag esilaranti fanno da contorno a una visione della trama che si mantiene spiritosa e pittoresca senza mai scivolare nello stucchevole fuori luogo.
Nel bicentenario della nascita di Jacques Offenbach ecco che la sua musica ci riporta in quella dimensione di metà Ottocento ormai prossima all’avvento della Belle Époque. Su uno spartito intriso di danze (mazurka, polka, valzer e tanti altri momenti di assieme) si staglia un libretto a tratti al limite del nonsense, che esalta l’aspetto buffonesco del rimprovero ai mariti cocciuti, avvalendosi pure della famosa citazione di Molière: “Tu l’as voulu, George Dandin”. La serata vede inoltre la prima esecuzione assoluta di Un mari à la porte nell’orchestrazione redatta per il Maggio dal  M° Luca Logi, che nel libretto di sala illustra con dovizia di dettagli sia la prassi compositiva delle operette di Offenbach, sia il lavoro di ricostruzione della partitura da un “canto-piano”.
La bacchetta del M° Valerio Galli sa cogliere con intelligenza lo spirito goliardico e godereccio dello spartito, imprimendo all’esecuzione la freschezza e la leggerezza dei passi orchestrali, adattandoli alle necessità drammaturgiche e trovando con il palcoscenico quella sintonia necessaria a un’ottima riuscita musicale.
Henri Martel è interpretato da un valido Patrizio La Placa, che si cimenta nella parte del “mari à la porte” con un piglio vocale e scenico di tutto rispetto. Sciantosa, esuberante, puntigliosa e mai volgare la Suzanne di Marina Ogii, dotata di una vocalità accattivante e ben a fuoco. Matteo Mezzaro usa con intelligenza e spigliatezza il proprio strumento vocale per dare colore e vivacità al compositore Florestan Ducroquet, una sorta di autoritratto dello stesso Offenbach dagli accenti quasi rossiniani. Francesca Benitez si dimostra una Rosita di prim’ordine, che non fa fatica a districarsi in agilità e sovracuti e che interagisce amabilmente con gli altri personaggi, dando linfa a duetti, terzetti e quartetti. La vocalità nitida e squillante (ben coniugata all’ars scenica) si apprezza con particolare piacere nell’aria J’entends ma belle sul ritmo di un valzer tirolese. Questi i protagonisti di un’ora di musica gaia e leggera che conquista il sentito apprezzamento del pubblico.

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Il tempo dell’intervallo ed eccoci proiettati nella Sicilia di Giovanni Verga, dal cui racconto Cavalleria rusticana il livornese Pietro Mascagni ha tratto l’omonimo dramma in musica. La luminosità sbarazzina della camera di Offenbach viene sostituita da tinte pastello e da un clima plumbeo, che già preannuncia l’epilogo con una mattina di Pasqua dall’atmosfera ben poco festosa.
Personalmente, ho trovato un po’ anonimo questo allestimento, che ha saputo comunque cogliere l’essenza del dramma con alcuni elementi, a mio avviso, avulsi dalla realtà siciliana. Tuttavia certe richieste fatte ai coristi risultano assurde nonché slegate dalle esigenze del canto e dell’interpretazione scenica, tipo farli entrare con un lungo palo sulle spalle (che non si sa se rappresenti un albero della cuccagna o uno strumento per la lap-dance) e lasciarli girare così per il palcoscenico (mentre sono alle prese con un impegno canoro non indifferente) senza che tale scelta abbia nulla a che fare né con la novella verghiana, né col libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci.
A parte questa precisazione, sul versante musicale meritano una segnalazione il Coro e l’Orchestra del Maggio, entrambi all’ennesima potenza, e l’egregia compagnia di canto.
Nel ruolo di Santuzza Alexia Voulgaridou interpreta con pathos la femmina tradita e offesa da compare Turiddu. Vocalmente il soprano trova i suoi slanci migliori nella parte più acuta del rigo (dove fa emergere un elegante fraseggio e accenti convincenti), mentre perde enfasi e corpo quando scende nel registro grave, ambito in cui risulta spesso poco timbrata e piuttosto sfocata.
Marina Ogii torna come Lola, oca giuliva ma con ficcante presa nelle piccole frasi a lei affidate.
Angelo Villari domina nel ruolo principe di Turiddu grazie a una vocalità ammantata di luce, il cui squillo corrobora l’atmosfera del Teatro riempiendola di sonori armonici. L’eleganza della parola scenica e la veemenza delle invettive evidenziano un’eclettica capacità di gestire le proprie risorse canore, che vanno dal duetto tutto fuoco e nerbo con Santuzza alla romanza Mamma, quel vino è generoso, in cui l’arcobaleno di colori non fatica a dispiegarsi. Anche Devid Cecconi emerge con furore nei panni di Compar Alfio, evidenziandone più l’aspetto rude e truce rispetto a quello festaiolo e baldanzoso. L’emissione gioca molto sulla spinta e sulla forza, motivo per cui qualche acuto rimane un po’ indietro perdendo luminosità e proiezione.

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Elena Zilio è sinonimo di garanzia come Mamma Lucia, parte che, oltre a una cantante di rilievo, necessita di un’interprete che possa incarnare a livello visivo la donna siciliana di fine Ottocento. A settantotto anni, la voce della Zilio rimane una lezione su come si mantenga con intelligenza il proprio strumento. Completava il cast Cristina Pagliai (Una donna).
Una serata in stato di grazia per il Coro, guidato dall’insostituibile M° Lorenzo Fratini ed eccelso, come già detto, nonostante gli impegni scenici piuttosto assurdi. Mirabile l’entrata Gli aranci olezzano e commovente la preghiera Inneggiamo il Signor non è morto: un concertato con soprano e mezzosoprano da ricordare per intensità di suono, emozioni,  colori e sensazioni, che hanno raggiunto il cuore di ogni spettatore.

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Il disegno orchestrale viene tracciato dalla bacchetta del M° Valerio Galli, sempre più maturo e padrone di partiture veriste. Sa tenere a freno una buca piuttosto rumorosa senza mai affogare il palcoscenico e la sala di uno straboccante suono, bensì trovando sempre quel giusto bilanciamento di intensità. Nel famosissimo scorcio strumentale dell' Intermezzo, poi, sa prendere ogni nota e curarla come una creatura filiale con un legato da sogno e un colore celestiale.
Teatro gremito in ogni ordine e grandi consensi rivolti a tutto il palcoscenico siglano il successo di una fortunata serata. (Recita del 12 febbraio 2019).

Crediti fotografici: Michele Monasta per il Maggio Musicale Fiorentino - Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il direttore Valerio Galli
Sotto: scena da Un mari à la porte di Offenbach

Al centro in sequenza: Cavalleria rusticana, Angelo Villari (Turiddu) e Devid Cecconi (Alfio); Alexia Voulgaridou (Santuzza)
In fondo: immagine di scena di Cavalleria rusticana






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