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Quando il cantante incarna pienamente il vigore e lo spirito verdiano l'interpretazione č da manuale |
Nicola Alaimo insuperabile Falstaff |
servizio di Simone Tomei |
Pubblicato il 02 Dicembre 2021 |
FIRENZE - «Non sto facendo un'opera buffa. Sto lavorando su un personaggio. Il mio Falstaff non è solo quello delle Allegre comari di Windsor, in cui è soltanto un buffone sbeffeggiato dalle donne; è anche il Falstaff dell'Enrico IV e dell'Enrico V»: così Giuseppe Verdi scriveva ad Italo Pizzi - letterato parmense - in merito all’opera che dopo quattordici anni di silenzio stava accingendosi a comporre. Infatti, Arrigo Boito, autore del libretto, riprese la trama di Le Allegre comari di Windsor - la più leggera e l’ultima delle tre opere di Shakespeare in cui appare Falstaff - ma attinse anche dall'Enrico IV e dall'Enrico V, prendendo da questi due drammi diverse frasi, il monologo dell'onore e gran parte del monologo del terzo atto, oltre al brano Quand'ero paggio. Così facendo restituiva a Falstaff molti aspetti del personaggio originale che erano andati persi nella commedia, e offriva a Verdi un libretto ricco di scherzi geniali basati sul suono delle parole, e di innumerevoli stravaganze che esaltavano l'elemento comico. Con mirabile sensibilità psicologica il librettista sapeva ogni volta addurre proprio quegli argomenti che il gran vegliardo desiderava ascoltare, poiché lo rafforzavano nelle sue più segrete aspirazioni. Boito scriveva a Verdi il 9 luglio 1889: «C'è un solo modo di finir meglio che coll' Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d'ilarità! C'è da far strabiliare!". Questa lettera ebbe ragione delle ultime resistenze del Maestro che rispose il giorno successivo in maniera concisa e risoluta: "Caro Boito, Amen; e così sia!......... Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all'età, alle malattie!» Una collaborazione idilliaca che ha il suggello in questo estratto tratto da una lettera che il compositore scrisse a Boito il 17 marzo del 1890: «Il primo Atto è finito senza nissun cambiamento nella poesia; tale e quale me l’avete dato Voi. Credo che lo stesso avverrà del second’Atto a meno di qualche taglio nel concertato come Voi stesso diceste. Non parliamo ora del Terzo: ma credo che non vi sarà molto da fare nemmeno in questo.» Un piccolo spaccato di un capolavoro che arriva ai nostri giorni con lo spirito che l’ha animata sin dalla sua genesi. Infatti «... in questa commedia i tratti seri e gravi del vivere si sottendono ad un riso inesorabile, ma liberatorio ed irrefrenabile. Per esso tutti i problemi si dissolvono nel nulla. È il riso di un uomo che ha conosciuto le oscurità abissali dell'esistenza come pochi altri, e che ora fa udire contro e su di esse la sua risata. L'eccezionalità di Falstaff è data dal fatto che la sua schiacciante serenità non è mai caratterizzata da un ottimismo piatto e spensierato, ma appare invece come il rovescio del tragico, con cui si lega indissolubilmente.» In questa ultima opera Verdi, il grande tragico del teatro musicale, volle far proprio un atteggiamento di ridente superiorità, che intende l'intera vita come una commedia e la risata come l'ultima risorsa del saggio
  
  
 
E quest’anima non è stata tradita dalla realizzazione scenica al Teatro del Maggio Fiorentino; Sven-Eric Bechtolf, è stato eccezionale nel riportarci con semplicità ed immediatezza all’interno del classico e mai scontato teatro elisabettiano; le gestualità sono volutamente datate o se vogliamo “all’antica”, ma dense di fascino che si intersecano con geniali ed attualissimi “pop up” che appaiono sulla scena - tali da riportaci nel mondo magico del giardino di Windosr - e con le suggestive onde del Tamigi in movimento sullo sfondo - grazie ai video di Josh Higgasonche - che riflettono atmosfere oniriche. Le luci di Alex Brok - in cui i giochi luminosi immobilizzano e muovono i personaggi evidenziandoli nei momenti lirici che gli sono propri - assieme ai fantasiosi costumi di Kevin Pollard - ci portano alla mente i pittori di origine fiamminga. Il tutto degno della magica energia e vitalità con cui Verdi si congeda vittoriosamente dal teatro. La direzione di Sir John Eliot Gardiner mette in luce la consueta cura del dettaglio del suono di ogni singolo strumento cui si aggiunge, però, una scelta dei tempi piuttosto frastagliata; se la partenza è piuttosto serrata e spedita, subito mette il “freno” per la seconda scena del primo atto lasciandoci decisamente spiazzati ed anche il duetto del protagonista con Ford - degno del podio nel teatro d’opera - diventa piuttosto stancante e farraginoso. Tali ritmi inoltre non sono stati indenni da conseguenze sulle voci - specie nel comparto femminile - andando a rendere molto disomogenea - probabilmente lo era ab origine - la compagnia di canto. Il seguito non è molto diverso quanto ad andamento a più velocità, nonostante la cristallinità del suono sia stata ammirevole anche grazie a un comparto strumentale in stato di grazia.

E questa volta viene meno la “parità di genere” - di cui sono un fervente sostenitore - per fare un distinguo abbastanza netto sugli interpreti. In barba alle regole della cavalleria da galateo, inizio dal “sesso forte” dove la presenza del baritono Nicola Alaimo nei panni del title rôle ha fatto letteralmente strike: un artista in piena forma che ha disegnato il personaggio in tutte le sue sfaccettature con una vocalità salda ed un interpretazione scenica degna, se non talvolta superiore, dei suoi predecessori. Malinconia, comicità, stupore, spavento, si alternano con istrionica capacità nel reggere un ruolo che non richiede solo voce e movenze, ma deve aderire perfettamente al corpo come un guanto. Sa tener testa ai cambi di ritmo orchestrali, non si discosta mai un attimo dall’ingombrante presenza scenica e soprattutto non annoia mai, anzi incarna pienamente il vigore e lo spirito verdiano succitato. Gli tiene testa con saldezza vocale ed altrettanta capacità attoriale il baritono Simone Piazzolla nei panni di Ford; la sua gelosia è solo un aspetto dello sfaccettato personaggio - cui spesso si addossano interpretazioni bizzarre e poco attinenti alla realtà -; qui emergono altri aspetti, quelli più umani, che si attagliano perfettamente ad un canto sicuro, omogeneo in tutta la gamma vocale e soprattuto scevro di tutte quelle smorfie vocali di tradizione. Meno incisivo e vocalmente più debole il Fenton di Matthew Swensen; emissione corretta, ma nulla di più. Trio in grande spolvero quello formato da Christian Collia petulante Dottor Cajus, Antonio Garés nei panni di uno spigliato Bardolfo e Gianluca Buratto un tonante Pistola; tre ruoli che appaiono secondari solo sulla carta, ma non lo sono affatto: tre interpreti di eccezionale bravura che hanno quasi gareggiato tra loro per vedere chi poteva spuntarla, ma il risultato non è stato che un meraviglioso pareggio. Eccoci dunque al “gentil sesso” marchiato dal cammeo di una deliziosa grazia scenica, ma macchiato dalla poca incisività vocale. Ailyn Pérez è un’Alice Ford poco brillante e nemmeno tanto a suo agio con la dizione spesso tutt’altro che impeccabile; il colore vocale è molto gradevole, ma il personaggio non emerge rimanendo alla stregua di una non più che corretta esecuzione. La Nannetta di Francesca Boncompagni sembra attingere dall’esperienza barocca tutta la sua verve interpretativa - e di verve ne ho notata molto poca - con suoni tendenzialmente fissi in acuto e piuttosto monocorde che non emozionano e non vivacizzano un personaggio che dovrebbe illuminare la scena. Sara Mingardo si destreggia bene sulla scena, ma anche qui il personaggio di Mrs Quickly muore a causa di un canto piuttosto anonimo dotato di poco peso specifico. Altra considerazione per la Meg Page di Caterina Piva della quale si può ammirare un’ottima precisione musicale, un’emissione sicura e curata nel fraseggio. Il coro preparato e diretto dal M° Lorenzo Fratini, seppur impegnato marginalmente nella terza parte dell’opera, ha saputo dipingere la scena finale con colori fantasmagorici, concludendo la serata in maniera davvero superba.

E qui mi piace citare una piccola frase estratta dalla corrispondenza Verdi-Boito proprio in merito alla fuga finale - uno dei primi brani composti come si evince proprio da questo scritto: «Mi diverto a fare delle fughe!... Sì signore: una fuga ... e una fuga buffa... che potrebbe stare bene in Falstaff!... Ma come una fuga buffa? perché buffa? direte Voi?... Non so come, né perché, ma è una fuga buffa!» (Lettera del 18 agosto 1889) Dopo gli applausi copiosi e calorosi, non è mancato il bis proprio della fuga finale dove tutti gli astanti - grazie all’ilarità del protagonista - sono stati immersi in una divertente variazione sul tema alzandosi dalle comode poltrone al motto di: “aritutti gabbati”. (La recensione si riferisce alla recita del 30 novembre 2021)
Crediti fotografici: Michele Monasta per il Teatro dell'Opera di Firenze - Maggio Musicale Fiorentino Nella Miniatura in alto: il protagonista Nicola Alaimo (Falstaff) Sotto in sequenza: Simone Piazzolla (Ford); Matthew Swensen (Fenton); Christian Colla (Dottor Cajus); Antonio Garés (Bardolfo); Gianluca Buratto (Pistola); Ailyn Pérez (Alice Ford); Francesca Boncompagni (Nannetta); Sara Mingardo (Mrs Quickly); Caterina Piva (Meg Page) Al centro e in fondo: due belle panoramiche di Michele Monasta per il Maggio Musicale Fiorentino
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