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L'Opera di Firenze ha inaugurato la stagione estiva nel cortile di Palazzo Pitti

L'Elisir è un serial americano

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 22 Giugno 2016

160622_Fi_00_LElisirDAmore_LauraGiordano_phPietroPaoliniFIRENZE - Non ho mai pensato che L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti sia fino in fondo un’opera completamente buffa; un ascolto superficiale ci porta a pensarla come un’oasi piena di allegria, umorismo e goliardia, ma spesso risulta velata di profondi sentimenti di tenerezza e di un tappeto di sottile e malinconico disincanto. Ciò nonostante, contrariamente a quello che è pensiero comune, non credo neppure che un passo come Una furtiva lacrima possa essere annoverato tra i brani patetici e sconsolati, bensì la interpreto più come una pagina piena di speranza e di apertura per un futuro che sembra definitivamente svoltare.
L’apparenza di una storia semplice, bucolica e legata al buon senso sembra farla da padrona, ma possiamo scovare, dentro le frasi, dentro le intenzioni e dentro un costrutto apparentemente complesso, una trattazione antropologica completa; superstizione burlata dalla ragione, che però trova il suo mediatore nell’onestà dei sentimenti che porta al canto di speranza e di risoluzione - proprio come asserivo prima in relazione all’aria principale del tenore - è il tema portante di tutto il libretto con le giuste incursioni goliardiche e grottesche. L’Elisir d’amore sostituisce, grazie all’immissione dell’elemento sentimentale e all’umanizzazione dei personaggi, una radicale rivisitazione dello stile comico proprio per questa presenza di forti di emozioni e di sentimenti propri dell’uomo. Questo è il mio pensiero su quell’opera donizettiana, cui ho assistito lunedì 20 giugno 2016, nel Cortile di Palazzo Pitti, per l'apertura della Stagione estiva dell’Opera di Firenze.
Un ambientazione tutta americana di questo lavoro a cura del regista Pier Francesco Maestrini con scene di Juan Guillermo Nova, costumi di Luca Dall’Alpi e luci di Bruno Ciulli, è risultata credibile e per nulla fuori luogo, potendosi questa storia ambientare in qualunque loco senza perder di vista l’obiettivo precipuo del compositore.
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Ecco che le scenografie, le movenze, le idee geniali dei responsabili dell’aspetto scenico hanno saputo trasfondere tutte le idee musicali in questa ambientazione spostata verso il midwest di sapore fine anni Sessanta con tutta la sua flora e la sua fauna; sembrava di rivedere un serial di telefilm che per decenni è circolato sulle televisioni private italiane: Hazard. Tutti gli elementi ambientali di quel serial erano presenti: grotteschi contadini vestiti con le mitiche camicie a quadri e armati di falci e forconi, procaci ragazze in jeans attillati e corti con i mitici stivali a punta da cowboys, monaci in stile Hare Krishna, una folla di signore e signori della buona borghesia che condivano con simpatica eleganza un ambiente piuttosto semplice, ma con il sapore pieno del nuovo mondo; non è mancata neppure un’auto in scena che favoriva l’entrata di Dulcamara il quale più che un imbonitore faceva venire in mente il vecchio Boss Hogg dei telefilm in questione mentre il sergente Belcore fa la sua entrata al ritmo incalzante della melodia usata per gli allenamenti militari. Un quadro prettamente americano, ben assortito e ben amalgamato in un libretto che nulla ha dello stile U.S.A., ma che grazie ad un’arguta sapienza - proprio per il fatto che nel libretto stesso non compaiono dei riferimenti cogenti tali da ingessare l’azione in un luogo specifico - ha saputo fondersi con le liriche di Felice Romani e con le melodie del bergamasco Donizetti. Un’idea fresca, brillante, di sapore giovane e soprattutto spontanea sia da un punto di vista visuale che uditivo.
È proprio l’aspetto uditivo che merita una narrazione completa e dettagliata perché il giudizio pressoché positivo che scaturisce da questo breve racconto possa trovare una precisa descrizione dei protagonisti, interpreti di questo capolavoro di parole e di musica.
La presentazione sulla brochure di sala mi induce a seguire l’ordine in essa indicato e proprio la scaltra Adina, come la noma l’imbonitore Dulcamara, appare prima in lista.

160622_Fi_02_LElisirDAmore_MarcoFilippoRomano_phPietroPaolini 160622_Fi_03_LElisirDAmore_BiagioPizzuti_phPietroPaolini

Dunque, per voce del soprano Laura Giordano, ha preso vita, anima e colore il personaggio femminile principale; la Giordano, sicura e spigliata, ha saputo concretizzare appieno l’idea registica, con una determinazione ed un piglio da grande interprete, risultando sempre divertente e scaltra al punto giusto, senza mai scendere nella “facile dozzinale facezia soubretttisitca” che spesso induce questo ruolo; non sono mancate una dizione ed una vocalità del tutto appropriate alla situazione con una perfetta intonazione, proiezione e puntatature sonore che hanno fatto emergere con ancor più evidenza le sue grandissime potenzialità - peraltro già apprezzate in una recente partecipazione ai Pescatori di perle di Bizet proprio nell’ultima stagione invernale dell’Opera di Firenze (qui) - unite ad una ottima tecnica; sia l’aria iniziale che il duetto finale con Nemorino, sono stati momenti di piacevole ascolto e divertimento soprattutto con l’esecuzione della cabaletta finale dove nel “da capo”, molte volte omesso, ci ha fatto partecipi delle sue pregevoli agilità con delle personali variazioni, per poi concludere con una perfetta scala che dal Do - cosiddetto di petto - è scesa fino al Do centrale senza cedere né in intonazione, né in corposità, né in tenuta del suono.
Juan Francisco Gatell è stato un interprete del credulone Nemorino, facendo emergere con grande credibilità un carattere tenero, buono, mite; l’idea di vestirlo come un pulcino giallo che pubblicizza i prodotti della “Adina Road-Food” è riuscita a conferire al personaggio quella caratteristica di “grullo del villaggio” che però poi sa bene o male riscattarsi grazie alla speranza e con quel po’ di fortuna che gli arride sul finale.
Una partenza vocale piuttosto in sordina ha caratterizzato la sua interpretazione musicale; la prima aria Quanto è bella quanto è cara è stata caratterizzata da un canto piuttosto gutturale e forzato che non ha permesso un’uniformità di emissione; non posso negare un netto miglioramento con il prosieguo dell’opera dominata da un canto più incline al legato, mettendo anch’egli in risalto una buona capacità di dominare lo spartito nelle agilità, nel fraseggio e con un pregevole gusto interpretativo; caratteristiche che gli hanno permesso di portare a casa un’ottimo successo anche grazie all’interpretazione dell’aria topica del ruolo eseguita con grande pathos, ottime intenzioni, fluido legato e quel trasporto che non lo ha fatto scadere in un atteggiamento tragico, bensì in una determinata voglia di riscatto; che il miglioramento sia dovuto ai ripetuti streaptease che ha dovuto bene o male subire dai bulli e dalle “bulle” che lo hanno attorniato per tutto il dipanarsi della vicenda? Momenti anche questi di puro divertimento senza mai essere volgari.
Grande interpretazione sia da un punto di vista scenico e vocale anche per il baritono Biagio Pizzuti nel ruolo di Belcore; grazie ad un timbro dotato di brillante puntatura, che non ha inficiato sulla possenza e sulla corposità necessaria per fornire i giusti accenti alle frasi del vanitoso sergente, ha reso godibile, tutta la caratterizzazione interpretativa del personaggio. Bel legato, mai mellifluo, bravura nelle agilità e capacità di gestire le dinamiche sonore, non potendo non rilevare talvolta qualche lieve forzatura dovuta probabilmente anche alla caratterizzazione del personaggio voluta dal regista.
Disinvoltura scenica, preparazione vocale e grandi doti di mattatore, hanno fatto dell’interpretazione di Marco Filippo Romano un Dulcamara ottimamente cantato e disinvoltamente recitato. Chiaro nella dizione e sicuro nell’emissione in tutta la gamma sonora che gli è propria; nella grande aria buffa Udite, udite o rustici ha messo in evidenza la sua grana artistica riuscendo ad interagire con orchestra e coro in maniera perfetta e con quel piglio comico giusto, direi quasi “boccaccesco”, ma mai volgare o rozzo.
Adriana Donadelli, nei panni di Giannetta, non ha fatto fatica per la sua naturale bellezza a interpretare un ruolo di contorno, ma comunque di un certo peso scenico e musicale, evidenziando ottime doti di attrice e una grande voglia di mettersi in gioco per riuscire a vincere la sua ancor giovanile voce, che necessita situante ancora di maturare.
Il Coro del Maggio Musicale in mano al M° Lorenzo Fratini era in buona forma, anche se in alcuni momenti non mostrato qualche scollatura con il gesto direttoriale del M°Alessandro D’Agostini del quale non posso che esprimere un pieno riconoscimento di cura, stile, professionalità per come ha affrontato questa partitura.
Sono concorde con la lettura del direttore ed ho apprezzato appieno le dinamiche, le intenzioni, i tempi e quel guizzo di freschezza che ha saputo ovunque infondere ad uno sparito che spesso invita ad eccedere negativamente con tempi serrati e frenetici, oppure all’opposto in una tediosa nenia; essendo piuttosto vicino alla buca, ho potuto notare una frenetica attenzione e cura del gesto, sia per gli strumentisti che per i cantanti sul palcoscenico, cui non ha mai fatto mancare un sostegno sicuro e pregnante, fornendo sempre un gesto non solo manuale, ma anche espressivo facciale: un atteggiamento che ha accompagnato le voci con comodi respiri e dando alla musica quel significato proprio di “serva della parola” senza trasformarsi come spesso succede in “schiava della parola”, oppure ancor peggio “dominatrice della parola”.

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Il pubblico piuttosto numeroso, ha apprezzato quest’idea fresca di un Elisir americano, potendo godere di tutto in questo in un contesto unico e meraviglioso come il Cortile di Palazzo Pitti. Ancora repliche per questo titolo il 22, 26 giugno e 5,13,19,26 luglio 2016.

Crediti fotografici: Pietro Paolini per il Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il soprano Laura Giordano eccellente interprete di Adina
Sotto: ancora la Giordano con il "pulcino" Juan Francisco Gatell (Nemorino)
Al centro: il basso Marco Filippo Romano (Dulcamara) e il baritono Biagio Pizzuti (Belcore)
In fondo: un'istantanea di Pietro Paolini su L'elisir d'amore americano






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