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Il capolavoro di Giuseppe Verdi accolto con favore dal pubblico del Teatro Regio di Parma

Don Carlo da manuale

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 14 Ottobre 2016

161014_Pr_00_DonCarlo_Daniel OrenPARMA - La partecipazione al Festival Verdiano 2016 per la rappresentazione del Don Carlo di Giuseppe Verdi mi ha suscitato diverse riflessioni prendendo spunto proprio dalla trama che si snoda all’interno di questo dramma; Verdi sviluppa qui diverse tematiche: il contrasto genitore/figlio, fra Filippo II di Spagna e Don Carlo; il tema politico delle Fiandre oppresse verso le quali Carlo è chiamato in soccorso; il tema dell‘amicizia nel personaggio del Marchese di Posa, Rodrigo, che muore facendosi credere sobillatore della rivolta al posto di Carlo; il tema del potere religioso con la figura del Grande Inquisitore al quale anche il Re di Spagna si deve sottomettere; il tema della gelosia di Filippo II verso il figlio e della Principessa di Eboli verso Don Carlo quando lo scopre innamorato della propria matrigna... e siamo storicamente nella prima metà del ‘500.
Temi che non sono per nulla distanti o per nulla avulsi alla realtà del nostro tempo dei quali ogni giorno, la cronaca ci rende partecipi; ecco che allora, con i dovuti distinguo, il Melodramma diventa uno specchio in cui ci possiamo confrontare, scontrare, guardare, ammirare con la consapevolezza che l’essere umano vive costantemente con le sue gioie, le sue paure, le sue credenze ed i suoi drammi, adesso come allora; è qui dunque che cade quel muro che divide la modernità dal passato che vorrebbe mostrarci l’Opera come un oggetto ormai in disuso, come una fonte ormai arida, come un qualcosa che oggi non ha più nulla da trasemttere.
Almeno per quel che mi riguarda, ogni volta, che mi trovo davanti ad un qualsiasi componimento riesco a trovare spunti di riflessione, similitudini, assonanze e talvolta dissonanze con il vissuto del mio tempo a livello globale e con il mio vissuto personale, sì da stimolare in me costantemente un senso di continua introspezione, di continua ricerca di risposte alle molte domande che la vita mi suscita.
Questa serata del Don Carlo parmense, dove l’aria pungente dell’autunno si è fatta sentire ancor di più e nella quale mi sono immerso dopo alcune vicissitudini personali legate a rapporti di amicizia e di fiducia, mi ha fatto riflettere proprio in relazione a questi due grandi temi; essi prendono avvio proprio con le prime pagine dell’opera cui il compositore dedica un tema musicale che si ripeterà più volte; tutto parte proprio da un dialogo molto serrato tra il Marchese di Posa - simbolo dell’amicizia più fedele e nobile - e Don Carlo, in cui si parla dell’aspetto politico - la situazione delle Fiandre - e quello intimo personale del colpevole amore di quest’ultimo per Elisabetta; dialogo che sfocerà nella “cabaletta dell'amicizia”, con una melodia particolarmente accattivante dove troviamo le tradizionali "terze dell'amicizia" tra tenore e baritono. Proprio questo motivo sarà poi uno dei principali "temi della rimembranza" dell'opera, che si ripresenta in maniera incisiva nella scena dell'auto-da-fè quando Carlo pensa di essere stato tradito da Posa; e, naturalmente, alla morte di Posa tra le braccia di Carlo.
Ho sentito molto forte proprio questo tema dell’amistà che ha come conseguenza la grande fiducia nel riporre in un cuore amico i segreti e le passioni più recondite e che sfocia naturalmente come momento apicale nella totale ed incondizionata fiducia. Una “semplice” opera di quasi 150 anni fa ambientata cinque secoli addietro è in grado di provocare un tumulto nel mio animo e di questo non posso che essere immensamente grato con la conseguenza di essere sempre più desideroso di esplorare i meandri reconditi del mio animo proprio attraverso quella che per me è un’essenza della vita... la musica.
Concludo queste brevi riflessioni con uno scritto di Eugenio Montale che racchiude l’essenza di questo capolavoro del Cigno di Busseto esaltando appieno proprio il personaggio che più mi ha suscitato moti d’animo: “Don Carlos non è, né poteva essere, un’opera tutta eguale, senza difetti, senza parti stanche o convenzionali; ma è anche una delle vette del genio poetico verdiano ... Per quali vie Verdi sia giunto a tanto potrà forse spiegarsi in parte per la vitalità del dramma schilleriano ... e per l'ampiezza della trama - la più ampia da lui affrontata - ma anche e soprattutto in virtù di una intuizione personale miracolosa. Chi legga il libretto poco avvertirà della generosa ansia illuministica del marchese di Posa; ma chi ascolti la musica si accorgerà che Verdi ha fatto di lui un eroe, non un baritono. In confronto, meno sorprendono le figure di Filippo II e dell’Inquisitore perché Verdi ci ha abituati da tempo a personaggi più grandi del vero; e tuttavia mai gli era accaduto di porre a confronto due giganti di quelle proporzioni. E come negare la profonda tempestività stilistica della principessa Eboli, la profonda curvatura e arricciatura del suo canto? Eboli canta come canterebbe la cornice di una specchiera secentesca se l'opera di un orafo potesse aver voce. Eboli ... è una figura nuova della galleria verdiana com'è nuova l'amletica indecisione del personaggio Don Carlos, il meno eroico dei tenori.” (Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa).
Ormai sarete abituati alle mie digressioni, ma non me ne vogliate; ecco quindi che mi immergerò con il ricordo in questa serata verdiana per raccontarvi quello che ho assaporato dalla platea del Regio di Parma.
Ogni volta che mi trovo a dover visitare un nuovo allestimento o vederne per la prima volta uno già datato, non nego che ho sempre quel timore di trovarmi davanti a qualcosa che potrebbe deludermi; la mia delusione spesso viene fuori quando non c’è quel rispetto e quel “timore reverenziale” nei confronti dell’autore, dei librettisti, dei cantanti e quindi del pubblico. Proprio pochi giorni prima della serata di Parma, ho avuto modo di trovarmi di fronte ad uno scempio musicale e registico come mai prima d’ora i miei occhi avevano visto e le mie orecchie udito e quindi il mio timore, percorrendo l’autostrada della Cisa alla volta della città emiliana, era proprio dovuto a questi pensieri che si affollavano dentro di me.

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L’apertura del sipario ha sciolto ogni dubbio ed ogni ansia e adesso non posso che raccontarvi davvero, di una entusiasmante serata in compagnia di una meravigliosa triade composta da visione, voci e musica.
La visione: non credo sia facile raccontare un’opera come Don Carlo dove la complessità scenica e drammaturgica raggiungono vette molto elevate; quattro atti - nella versione italiana del 1884 - ambienti diversi, situazioni che si evolvono per poi ritornare in maniera circolare agli inizi nel Convento di San Giusto ai piedi della tomba di Carlo V; il regista Cesare Lievi è riuscito con pochi elementi a rappresentare gli ambienti in maniera molto chiara e precisa. Il grigio della lapide che accoglie Carlo V è stato il colore dominante; una serie di pareti mobili che salendo e scendendo ampliano o restringono lo spazio scenico portandoci per mano in tutti i luoghi ben delineati dallo spartito; di grande effetto l’ultima scena dove Elisabetta mano a mano che incalza nella sua aria Tu che le vanità, viene condotta quasi sul proscenio mediante un progressivo discendere delle pareti che la riportano come nel disegno di un cerchio, allo stato di partenza davanti alla tomba del suocero defunto; è qui che tutto nasce e tutto finisce con l’apertura miracolosa di questa lapide in cui verrà trascinato il protagonista, dalla voce penetrante del suo avo; una scelta molto intelligente che dà un segno di logicità e di armonia ad un’opera che ha notevoli difficoltà ad essere rappresentata con intelligenza nel rispetto di quella drammaturgia che l’autore ha indicato. È stato molto pregnante anche il tema del potere temporale, visto come un elemento dominante del tempo cui ogni richiamo librettistico ha trovato una sua risposta in elementi scenici significativi quali la presenza di figure in abito religioso con il cappuccio che si affacciavano dalle porte sullo sfondo a ricordare che tutto si deve piegare ai dettami della Chiesa e di una volontà divina usata più per incutere terrore e rendere gli uomini schiavi, che non per elevare lo spirito umano verso la trascendenza; la frase di Filippo II al termine del duetto con il Grande Inquisitore è emblematica: Dunque il trono piegar dovrà sopra all’altar. In conclusione una regia armonica, piacevole e soprattutto molto logica che si è ben armonizzata con un ottimo disegno luci di Andrea Borelli e con le già illustrate scenografie di Maurizio Balò che ha curato anche i meravigliosi costumi.
Le voci: eccoci dunque alla componente vocale che in generale è stata di ottimo livello, ma andiamo con ordine seguendo quanto scritto sul libretto di sala.
Filippo II, padre di Don Carlo, è stato magistralmente interpretato dal basso Michele Pertusi; la capacità di immedesimazione nel personaggio è stata talmente pregnante che ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo trasudava di passione, di sintonia completa con lo spartito, con l’orchestra, con gli altri interpreti; una maestria di palcoscenico che ha saputo trasferire nella platea i mutevoli stati d’animo che evolvono e involvono il personaggio; solo nell‘Avello dell‘Escurial, non riesce a dormire e ricorda il giorno delle sue nozze: Ella giammai m'amò; una pagina di un’intensità così marcata ha trovato già nella lunga introduzione, un uomo in preda al dubbio di non essere mai stato amato - ed ogni più piccolo movimento lo faceva trasudare -; un uomo a nudo che aveva iniziato il suo spogliarsi del dubbio e della delusione amorosa, già nel primo atto durante il dialogo con Posa, ma che poi tornerà ad essere quello di sempre nel successivo incalzante duetto con l’Inquisitore e poi nella vendetta finale con Elisabetta e Carlo; il fraseggio nobile, elegante, sontuoso ha trovato spazio in tutte le dinamiche di suono che il nostro interprete ha messo in campo per arrivare poi ad esplodere come un tuono, nel suo momento più drammatico.
Don Carlo, l’infante di Spagna è stato invece interpretato dal tenore Josè Bros la cui voce nitida e argentea si è ben districata in uno spartito piuttosto impegnativo vocalmente, ma che dal punto di vista drammaturgico non ha il peso di altri personaggi in altre opere legati alla corda tenorile; bel timbro, ecellente intonazione ed elegante fraseggio sono stati gli ingredienti di un’ottima riuscita del personaggio sia vocalmente che scenicamente.
Vladimir Stoyanov ha dato voce all’amico fedele Rodrigo ossia Il Marchese di Posa; un ruolo molto impegnativo in quest’opera, intorno al quale ruotano quasi tutti gli eventi e tutte le scelte degli altri personaggi; da amico fraterno, a “piacione” della Principessa Eboli, da consigliere e fido del Re a sua vittima sacrificale in nome del rapporto di amistà con Don Carlo; un personaggio scenicamente importante e impegnativo che ha trovato in Stoyanov un grande alleato ed un “fidele” interprete.
Sulla scena ha dimostrato grande passione e partecipazione interpretativa; ottimo legato sin dalla prima entrata, grande veemenza vocale nel serrato duetto con il Re,  devoto nei numerosi momenti d’assieme, per poi concludere magistralmente nella seconda scena del terzo atto dove da assoluto protagonista affronta due arie che portano in sé forti sentimenti, una tale passione ed una tale forza d’animo che possono essere rese così bene vocalmente solo se si è dentro il personaggio fino al midollo; è qui che è emersa con grande prepotenza una tale sublimazione del personaggio che non ha potuto il mio occhio non brillare per qualche momento di emozione; ho notato eleganza, possenza vocale mista a tenerezza e compassione verso la propria vita, ma al contempo fierezza per il gesto compiuto in onore del legame “amoroso-fraterno” verso Don Carlo; tutto ciò ha trovato vita nel canto di questo grande interprete che non ha tradito senz’altro gli accenti e le intenzioni del compositore.
Altra voce rotonda pastosa e possente quella del basso Ievgen Orlov nel ruolo del Grande Inquisitore con qualche asperità in acuto che lo hanno portato all’emissione di qualche suono un po’ fisso e privo di corpo, ma che nel complesso ha ben superato il cimento.
Simon Lim ha vestito i panni del Frate con un’interpretazione vocalmente molto accattivante riuscendo a fornire quegli accenti veementi e tenebrosi che il ruolo gli attribuisce.
Nel ruolo della regina Elisabetta di Valois il soprano Serena Farmocchia; vocalmente  e musicalmente corretta, di pregio il fraseggio e l’intonazione che non hanno mai trovato falle nella sua emissione, ma non è riuscita a dare quel carattere determinante al personaggio interpretato; è mancato un po’ di quel peso specifico che avrei gradito, soprattutto se posta in relazione al resto del cast.
Altro discorso per l’altra interprete femminile di primo piano: il mezzosoprano Marianne Cornetti è stata una Principessa Eboli molto convincente nonostante una partenza un po’ in sordina che non faceva presagire nulla di buono nel proseguo dell’opera; ecco invece che dopo le prime note risultate prive di smalto e piuttosto fiacche ha saputo riscattarsi quasi subito nella Canzone del Velo per poi andare in progressivo miglioramento nei concertati e negli altri interventi, per finire in grande stile nella drammatica aria O don fatale dove ha messo in piazza tutta la potenza e tutta la gamma di colori che le sue corde e la sua interpretazione potevano rendere ad una platea che l’ha osannata.
Ottima anche l’interpretazione di Lavinia Bini nei panni di Tebaldo sia da un punto di vista scenico sia con il canto; la Bini ha messo in risalto una bella freschezza vocale con grande facilità nell’acuto unitamente ad un timbro molto accattivante.
Sicuro, determinato e con una salda vocalità anche il tenore Gregory Bonfatti nel doppio ruolo di Il Conte di Lerma e Un araldo.

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Di grande pregio anche Marina Bucciarelli nell’infido ruolo della Voce dal Cielo che ha saputo affrontare con un bellissimo legato e con degli elegantissimi e sicuri filati.
Una domanda, dopo aver udito questi qui, me la sono posta: perché cantanti come Lavinia Bini, Gregory Bonfatti e Marina Bucciarelli, non cantano più spesso ed in ruoli più importanti?
Completavano il cast i bravi Deputati Fiamminghi che si sono ben amalgamati in un canto con una imponente eleganza e sicura determinazione unite ad una salda intonazione e bella dinamica: Daniele Cusari, Andrea Goglio, Carlo Andrea Masciadri, Matteo Mazzoli, Alfredo Stefanelli, Alessandro Vandin.
Il coro guidato da Martino Faggiani è stato altro grande protagonista negli interventi a lui affidati con un plauso per la parte femminile di corredo nel secondo atto nell’Aria del Velo per poi affrontare insieme alla parte maschile la grande pagina dell’auto-da-fè con grande partecipazione e intensità.
La musica: “La mia ispirazione è all'interno delle partiture musicali di ogni compositore. Solo lì, non altrove.” Con queste parole Daniel Oren - alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini - parla del suo approccio alla partitura e doveva essere proprio così per poter trasmettere con fedeltà il messaggio del grande compositore ben 203 anni dopo la sua nascita. Oren ha reso attuale uno spartito molto impegnativo che aveva da tempo abbandonato le sonorità classiche verdiane degli anni di galera, per andare a trovare il suo sfogo di novità negli ultimi capolavori della sua vita quali Otello e Falstaff. Ecco che le numerose particolarità e la varietà di temi, tempi, dinamiche e intenzioni hanno trovato nella lettura di Oren, una piena aderenza allo spartito e una sicura guida per la voce; ogni gesto è stato rivolto agli strumenti e ai cantanti per accompagnarli come un “fido amico” e tenerli per mano, in questo lungo viaggio che è pieno di insidie e di sentieri tortuosi, ma che non sono stati mai un problema, avendo come guida un braccio, un occhio ed un orecchio sempre vigili e attenti alle necessità di ciascuno.
Anche il pubblico quasi ai limiti del tutto esaurito, non ha mancato di tributare il suo “contento” per quanto visto e udito ed anche io, questa volta, sono ritornato ai miei lochi da questa splendida serata, affrontando l'autostrada della Cisa con altri pensieri, stavolta di gaudio e gratitudine, per una serata che ha visto la celebrazione di un grande uomo: Giuseppe Verdi.

Crediti fotografici: Ufficio stampa Teatro Regio di Parma
Nella miniatura in alto: il direttore Daniel Oren
Nella sequenza al centro: Serena Farnocchia (elisabetta di Valois); Vladimir Stoyanov (Marchese di Posa); José Bros (Don Carlo); Michele Pertusi (Filippo II); Ievgen Orlov (Grande Inquisitore); Marianne Cornetti (Principessa Eboli)
In basso: istantanea sull'auto-da-fe






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