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Con un'opera quasi dimenticata ha preso avvio il Rossini Opera Festival 2012

Un Ciro con esiti strepitosi

servizio di Roberta Pedrotti

Pubblicato il 17 Agosto 2012

120809_Pedrotti_Pu_Ciro_0_EwaPodlesPESARO - Per chi non ama o semplicemente non conosce l'opera, quella belcantista soprattutto, un classico luogo comune è dato dallo iato fra il tempo reale, naturale dell'azione, e quello alterato dell'espressione nel canto, per cui i concetti sono spesso iterati e dilatati oltre il verosimile, che però resta una categoria subordinata a quella sovrana della possibilità e della credibilità all'interno di un codice espressivo autonomo. Una confronto interdisciplinare con il cinema muto delle origini gioverebbe proprio a meglio comprendere la sostanza di questi codici e di questa concezione del tempo, validi anche quando agli albori della settima arte una didascalia semplice e sintetica poteva riferirsi a lunghi minuti di gesti ed espressioni spesso affascinanti, ma  sproporzionati agli occhi di una modernità per cui le lancette dell'orologio hanno inesorabilmente accelerato il loro passo.
Davide Livermore, con la sua esperienza di tenore e la sua vulcanica genialità, ha sempre prestato particolare attenzione alla semantica della drammaturgia musicale e dei suoi codici espressivi e ha saputo così mettere a profitto perfino i limiti del libretto di Ciro in Babilonia, presentato per la prima a volta a Pesaro per l'inaugurazione del XXXIII Rossini Opera Festival, diciamolo subito, con esiti strepitosi.
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Una donna rapita e concupita da un sovrano nemico, lo sposo che sotto mentite spoglie finge di assecondare i progetti dell'antagonista, l'agnizione, la scena di catene, il duetto degli amanti interrotto dalla rivale, sono tutti topoi che potrebbero essere considerati e analizzati alla stregua delle funzioni di Propp e il librettista Francesco Aventi li inanella rispettando consuetudini e convenienze teatrali, fra una parentesi biblica (il prodigio che interrompe l'orgia di Baldassarre e la profezia del profeta Daniele, qui Daniello) inserita per giustificare la programmazione dell'opera in tempo di quaresima e un finale troppo sbrigativo, ai limiti dell'incomprensibile. I tempi, i modi, i gesti, il divismo, la spettacolarità delle suggestioni storiche ed esotiche creano un'ideale liaison con il mondo del cinema, che Livermore gestisce con cultura raffinata e ancor più raffinata ironia creando una drammaturgia perfettamente intellegibile, coerente e intrigante. Nei primi anni del secolo scorso una proiezione cinematografica ha luogo, come d'uso, in un teatro, il pubblico prende posto trepidate e comincia a seguire, durante l'ouverture, i titoli di testa che annunciano la produzione ROF di Ciro in Babilonia, ossia la caduta di Baldassarre, kolossal rossiniano con divi di prima grandezza come Ewa Podles, Jessica Pratt, Michael Spyres. L'eccitazione cresce, un bimbo si lascia trascinare dalla magia della celluloide e attraversa lo schermo diventando il piccolo Cambise, figlio di Ciro e Amira, con questa prigioniero di Baldassarre. La realtà e la finzione si fondono pian piano, il pubblico, le maschere, i proiezionisti e i babilonesi si mescolano nell'orgia blasfema del re assiro, finché, con il lieto fine, anche la vera madre riabbraccerà il bambino tornato al di qua dello schermo.
Tutto si svolge rivisitando con humor sottile e intelligente i luoghi comuni e i topoi di cinema e melodramma, fra bellissimi costumi d'epoca (primi del '900 e antichità babilonese filtrata attraverso l'estetica del tempo), suggestivi toni seppiati e in bianco e nero, pose enfatiche ed espressioni ispirate ai divi dell'opera e della celluloide di cent'anni fa, fra la belle époque e il futurismo geometrico della Thais di Bragaglia, fra Petrolini, Sordi, Ustinov, Francesca Bertini, Lyda Borelli e Lina Cavalieri. Lodi incondizionate vanno dunque anche al costumista Gianluca Falaschi, a Nicolas Bovey, autore di scene e progetto luci, e al videodesign di D-Wok, cui dobbiamo un'impagabile effetto di pellicola antica ed efficacissime animazioni dei fondali; ogni dettaglio era peraltro inquadrato in un disegno registico complesso quanto affascinante e godibile senza mai un eccesso o una caduta di gusto, valorizzando al contrario ogni interprete, ogni singolo corista e ogni comparsa con la creazione di personaggi ben definiti (fra i quali perfino il boia Maciste).
Un bellissimo atto d'amore verso l'incantesimo dell'opera e del cinema, non a caso in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino, uniti con ironia ma anche e soprattutto con la massima serietà, che va di pari passo con un'interpretazione musicale non meno che eccellente. Ciro, per la prima volta rappresentata nell'edizione critica di Daniele Carnini (documentatissima nonostante l'assenza dell'autografo), è la quinta opera composta da Rossini, la seconda seria ad andare in scena, esattamente duecento anni fa e, pare, con un solenne fiasco che però non impedì successive riprese.
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L'ouverture proviene dall'Inganno felice, cellule, temi e microtemi si erano ascoltati già in Demetrio e Polibio e nell'Equivoco stravagante, questi ed altri torneranno, per esempio, in Tancredi, nel Turco in Italia, in Elisabetta regina d'Inghilterra, nella Morte di Didone, la prima aria di Amira sarà quella di Amaltea in Mosé in Egitto. Quel che manca a questo fecondissimo brodo primordiale, è ancora la compiutezza formale che di lì a pochi mesi proprio con Tancredi, L'italiana in Algeri e La pietra del paragone verrà consacrata con un balzo in avanti che ha, sì, del miracoloso, ma le cui premesse sono ben chiare in nuce. Ciro può essere pertanto considerato opera acerba, ma questo non deve trarre in inganno sulla qualità di molte pagine (fra cui la scena del supplizio con doppia aria di Ciro, incunabolo della futura Gran Scena), né sulla loro difficoltà. Basti pensare al ruolo di Zambri, ufficiale babilonese, ridotto a qualche recitativo e ad una strofa nell'Introduzione ch'è di tessitura così impervia ed estrema in acuto come nel grave da non far sembrare un lusso l'impiego del bravo Mirco Palazzi per un impegno così breve ma anche così intenso. Fuoriclasse autentici si avevano anche e soprattutto nei ruoli principali, a partire dalla formidabile protagonista Ewa Podles, diva autorevole, carismatica e autoironica, ancora impressionante per la scolpitezza dell'accento, per la musicalità e la capacità d'incantare con il legato e le fioriture più minute come di soggiogare con l'agilità di forza, per l'estensione miracolosa d'una voce robusta che ricorda come forse nessun'altra quello che doveva essere il mito del contralto all'epoca di Rossini: ampia ed estesissima, con gravi bronzei e virili e acuti sfavillanti e cristallini, senza troppo curarsi di un'omogeneità timbrica che diverrà obiettivo estetico solo più recentemente, preferita al tipo di spettacolarità e varietà che uno strumento come questo può garantire.
120809_Pedrotti_Pu_Ciro_3_EwaPodlesJessicaPrattConsiderata anche l'età non più verde del contralto polacco superlativa è forse dire poco. Superlativi si possono spendere senza tema d'esagerazione anche per l'Amira sfavillante di Jessica Pratt, splendida nei suoi costumi, intensissima sul piano espressivo, una vera regina e una musicista e stilista impeccabile, raffinata cesellatrice di variazioni che con rara classe toccano anche gli smaltati sovracuti in cui questa vocalità ampia e penetrante riluce in modo particolare senza che mai appaiano gratuiti ed esibiti, piuttosto gemme iridescenti iscritte in un elegantissimo arabesco cesellato con arte minuziosa. Terzo fra cotanto senno Michael Spyres, Baldassare, debutta a Pesaro con una prova maiuscola, autentico baritenore da grave saldo, pieno e ben brunito, capace di salire all'acuto ma soprattutto di dominare le dinamiche, di dare senso e colore alla frase, di accentare e fraseggiare con autorità e persuasione, di servire la coloratura rossiniana e variare con gusto e spericolatezza elettrizzante anche nell'impervia aria del secondo atto. Anche il secondo tenore Robert Macpherson, Arbace, si fa apprezzare per la proprietà del suo canto e per l'ottima immedesimazione, al pari di Raffaele Costantini, il profeta Daniello, ruolo piuttosto esiguo, ma primo schizzo di Mosé, e soprattutto di Carmen Romeu, Argene, voce promettentissima che si piega alla ben nota “Chi disprezza gl'infelici”, famosa per essere composta su una sola nota a causa delle limitate qualità della prima interprete, e ne restituisce la filologica particolarità rinunciando ad ogni variazione (avrebbe potuto ben permetterselo, ma è giusto ascoltare questo pezzo in questa forma essenziale).
Al pari d'un vero personaggio, si è detto, il coro del Comunale di Bologna preparato da Lorenzo Fratini è valorizzato al meglio. Merito anche di Will Crutchfield, responsabile operistico del festival statunitense di Caramoor, in collaborazione con il quale è realizzato questo spettacolo, concertatore attento e appassionato, che dirige con amorosa cura rigorosamente a memoria suonando personalmente anche la parte del fortepiano nei recitativi. L'orchestra del Comunale di Bologna gli risponde bene, mostrandosi motivata e in buona forma.
Il successo è calorosissimo, con ovazioni entusiastiche per i protagonisti e gli artefici dello spettacolo, fra i quali, assistente alla regia, spunta un altro cantante, Gianluca Floris: chi avrà più il coraggio di parlare di teste da tenori? Questa serata sicuramente sarà ricordata come una delle inaugurazioni e dei recuperi più felici e intelligenti della storia del ROF.

Crediti fotografici: Amati-Bacciardi per Rossini Opera Festival di Pesaro
Nella miniatura in alto: Ewa Podles
Al centro: due foto di scena del Ciro in Babilonia
In basso: Ewa Podles e Jessica Pratt






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