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Il regista veneziano sotto la lente d'ingrandimento della musicologa

Michieletto un'analisi critica

servizio di Roberta Pedrotti

Pubblicato il 17 Settembre 2012

120809_Pedrotti_00_DamianoMichielettoLUMEZZANE (BS) - Dopo Strehler e Ronconi nessun regista italiano era più stato invitato al festival di Salisburgo fino al debutto, in questo 2012, di Damiano Michieletto, chiamato a tenere a battesimo un'opera incredibilmente mai rappresentata nell'ambito del festival austriaco, La bohème pucciniana. Quella di Michieletto è la storia confortante di un uomo di talento che raggiunge i massimi livelli grazie ai suoi meriti e alla sua preparazione (laurea in lettere a Venezia, studi di regia alla Paolo Grassi di Milano, regolare gavetta). Sembra ieri quando a Pesaro, nel rimpianto ciclo dedicato alle farse di autori contemporanei a Rossini programmato in seno al ROF, assistemmo alla ripresa moderna del Trionfo delle belle di Stefano Pavesi. Era il 2004 e allora l'interesse consisteva principalmente nell'antecedente della Matilde di Shabran, rocambolesca storia della redenzione del tirannico misogino Corradino cuor di ferro ad opera di una seducente fanciulla qui nomata Isabella, ma la messa in scena fece subito capire che quel ventinovenne veneziano sconosciuto ai più sapeva il fatto suo. Non uscii particolarmente entusiasta della regia in sé – soprattutto il prologo in prosa affidato in platea a due sgherri dell'iracondo castellano mi aveva lasciata perplessa – ma era indubbio che lo spettacolo fosse gestito benissimo, con un ritmo teatrale perfetto, che il lavoro sull'attore e l'uso dello spazio fossero quelli di un professionista che conosce più che bene i ferri del mestiere e ha il coraggio di usarli per ottenere gli obbiettivi che si è prefisso. Una premessa non indifferente per accogliere magari con stupore, ma anche con fiduciosa curiosità la scelta di Alberto Zedda e Gianfranco Mariotti di affidargli nel 2007 La gazza ladra.

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Il risultato superò ogni più rosea aspettativa: quanto la musica di quest'opera è eccelsa, tanto il libretto sconta irrimediabilmente i due secoli che ci separano dall'epoca d'oro del dramma semiserio. Ma già nel 1816 – prima di poterla ascoltare e d'innamorarsene – Stendhal aveva espresso dei dubbi sulle possibilità melodrammatiche di questo soggetto. Michieletto ci ha saputo trasportare in un mondo di sogno in cui cognomi come Vingradito e Villabella con le conseguenti identiche cifre sull'argenteria e soprattutto le condanne a morte per furto di posata diventano credibili. E diviene credibilissimo quando la commedia si cambia in tragedia nel second'atto: il sogno si tramuta in incubo, una pioggia battente ha cambiato i colori squillanti in un cupo acquitrino. La gazza è in realtà una ragazzina che nel sonno s'immerge in un mondo incantato che la sua curiosità, il suo incosciente rubacchiare qualunque cosa (le fragole raccolte da Ninetta, gli occhiali del Podestà, le posate incriminate...) trasformeranno in un labirinto mortale, reso ancor più claustrofobico da quelle acque scure che sembrano simboleggiare l'inconscio. Michieletto ha modo così tecnicamente di dare movimento teatrale al largo concertato del finale primo (“Mi sento opprimere | non v'è più speme”), nel quale i cantanti son tutti immobili come da tradizione, ma, non vista, si aggira la gazza, che ha cominciato a intendere le conseguenze del suo gesto infantile e tenta invano di rendere il cucchiaio rubato. Non credo di esagerare nel sottolineare l'intensità commuovente e la poesia di quel momento, chiave di volta del dramma, nel quale il lieto fine – con il provvidenziale risveglio prima che dell'esecuzione della vera colpevole ormai scoperta – rappresenta con leggerezza la conclusione di un piccolo racconto di formazione. L'esordio a grandi livelli è eclatante, ma le prove successive non deludono le aspettative.
Vediamo allora nel 2008 a Lugo di Romagna l'esordio europeo di JackieO di Michael Dougherty, di cui il regista veneziano coglie lo spirito eclettico e il gusto per la rappresentazione della celebrità divertendosi a prendere a modello l'arte di Andy Warhol (non a caso uno dei protagonisti dell'opera).

120809_Pedrotti_02_DamianoMichieletto_JackyeOLugoTeatroRossini080403_01phMatteoLanzoniSe questa produzione è un successo è merito principalmente dell'indiavolata, ma elegantissima, macchina teatrale creata da Michieletto con un unico oggetto scenico, un cilindro che è sia barattolo di zuppa Campbell sia ponte e sala macchine del Christina. L'Onassis di Simone Alberghini è irresistibilmente spassoso; lo scontro fra Jackie e Maria Callas carico di pathos; il finale con immagini della storia americana dagli anni '60 fino alle Torri gemelle a commentare le parole di JFK ripetute da Jackie e dal coro riescono a far riflettere senza retorica.
Torna a Pesaro Michieletto, e centra il bersaglio anche quando la produzione non è della massima importanza: nel 2009 l'attenzione mediatica sarebbe per la Zelmira con il debutto di Juan Diego Florez e Gregory Kunde, mentre La scala di seta è dichiaratamente uno spettacolo d'emergenza, programmato dopo l'ennesimo taglio dei fondi allo spettacolo. Ma per Zelmira Giorgio Barberio Corsetti fallisce e solo singole prove musicali si faranno ricordare, mentre Michieletto firma un gioiellino che entra subito nella storia del Festival. Uno specchio che svela anche le azioni più nascoste, la planimetria dell'appartamento di Giulia, un arredamento offerto dallo storico sponsor Scavolini, un cast con cui costruire dei personaggi azzeccatissimi (il Germano filippino di Paolo Bordogna diventa una maschera indimenticabile), un ritmo irresistibile, ma che non sacrifica mai la recitazione e l'approfondimento. Perché questa Scala di seta si gode come un divertissement, ma si può leggere a più livelli, per una garbata pennellata metateatrale e soprattutto per quel disporre durante l'ouverture i cantanti come fossero oggetti di scena, acuta e non prevaricante lettura della contemporaneità alienata. La qualità del lavoro di Michieletto sarà evidente quando lo spettacolo si rinnoverà nel 2011 con un cast differente (resterà solo l'irrinunciabile Bordogna) cambiando dove necessario senza perdere una briciola di vitalità.
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Finalmente, però, sarà nel 2010 un nuovo grande capolavoro: Sigismondo. Un'altra sfida impossibile per un regista, con quel libretto sghembo, assurdo ai limiti del ridicolo, come se Otello non avesse ucciso Desdemona ma fosse impazzito credendo di averlo fatto e la reincontrasse dopo quindici anni, ma in un turbinio di identità che la faranno riconoscere solo alla fine, con la conciliazione e la punizione dello Iago di turno. Inoltre, se Rossini compose ex novo buona parte dell'opera, non v'è quasi tema che non sia poi confluito in un'opera di maggior fortuna, facendo risultare così il povero Sigismondo un surreale, drammaticamente insulso, collage di déjà vu. Michieletto lo spoglia di tutti gli improbabili orpelli da medioevo polacco e delle pastorellerie boscherecce andando dritto al cuore della vicenda, la follia. E sembra di scoprire in Rossini (un Rossini ottimamente eseguito, con tutti i crismi filologici) inquietudini degne di Ibsen, di Hitchcock, del Visconti di Ludwig.
Ormai siamo di fronte a un regista di consacrato calibro internazionale, anche se Sigismondo fa discutere, scatena una battaglia fra entusiasti e scontenti, senza vie di mezzo, un'accesa schermaglia di acclamazioni scatenate e violente contestazioni. Personalmente non credo d'essermi mai sgolata tanto in sostegno di un artista, forse solo per Graham Vick dopo Mosé in Egitto, sempre a Pesaro, nel 2011.
Ma anche Madama Butterfly a Torino nella stagione 2010/2011 ha fatto discutere. Dura, durissima, immersa nel degrado di un oriente contemporaneo dove i corpi si vendono con il più bieco cinismo, dove piccoli bulli perseguitano l'orfano dai tratti occidentali e la geisha si spara un colpo di pistola. Ma anche poetico, con il bambino che gioca fra le pozzaghere con barchette di carta, con il sogno di Cio Cio San che cerca le stelle sul tetto della sua casa/vetrina mentre Pinkerton l'attende ubriaco e infoiato (e cos'è quel duetto se non l'incontro fra un'adolescente che sogna il principe azzurro e un predatore sessuale?).
Il regista capace di questo autentico pugno nello stomaco è anche quello capace di far divertire immergendo con spirito giocoso L'elisir d'amore nella nostra quotidianità con un bellissimo allestimento che dalla Spagna è recentemente approdato a Palermo. Siamo su un'affollata spiaggia mediterranea, ma non c'è attività, non c'è gesto che vada contro la musica, anzi, ci dimostra l'eternità del classico che vive in ogni contesto, se questo è realizzato con intelligenza. Il moltiplicarsi dell'azione e dei dettagli valorizza piuttosto la partitura, in primo luogo perché la cura attentissima del regista non lascia nulla al caso ma nel contempo lascia spazio all'improvvisazione, o quantomeno lascia intendere piacevolmente al pubblico che tutto si svolga così naturalmente perché così è nell'indole dei personaggi, non perché qualcuno lo ha deciso. In secondo luogo perché ormai, nella nostra contemporaneità mediatica, siamo abituati fin dall'infanzia a ricevere un'infinità di stimoli diversi simultaneamente, per cui se Adina legge al bar la storia di Tristano e Isotta mentre in spiaggia c'è chi fa ginnastica (a ritmo della stessa musica) o gioca a pallavolo, se nessun personaggio viene lasciato mai a se stesso, ma è sempre presente e attivo nel microcosmo ricostruito sulla scena non siamo distratti, anzi, siamo più coinvolti.

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Adina non è e non deve essere simpatica, è la padroncina, è viziata, sa di essere bella – o comunque sa farsi apprezzare dagli uomini – ricca e di successo, sa di essere la più istruita. E lo fa pesare, non risparmia battute sgradevoli a Nemorino, anche se gli è affezionata e i battibecchi finiscono in gioco. Perfino le variazioni e i sovracuti interpolati da Desiré Rancatore diventano allora parte del personaggio. Nemorino non è necessariamente uno stupido, è un ragazzotto terribilmente ingenuo, dolce e giocherellone, è un aiutante factotum abituato ai servizi più umili. Non può competere con un Belcore che finalmente non è un soldatino di piombo che gioca a fare il Miles gloriosus, ma è il classico seduttore da spiaggia il cui compito è accumulare indifferentemente più conquiste nel minor tempo possibile approfittando del fascino della sua bianca divisa da capitano di nave da crociera. Celso Albelo e Mario Cassi sembrano nati in questo spettacolo e quasi non si crede che la prima assoluta a Valencia abbia avuto altri protagonisti. Così come il Dulcamara, che in Spagna era Erwin Schrott e in Italia è passato a un'altra personalità forte, e affatto differente: Paolo Bordogna. Eppure il personaggio pare non cucito addosso all'artista, ma ancora una volta cucito con l'artista. È un rappresentante di bibite energetiche che attraversa il litorale accompagnato da un gruppetto di stupide veline, ma all'occorrenza arrotonda smerciando sottobanco bustine di polvere bianca. La fa franca anche quando approfitta della confusione del finale primo per soffiare lo scooter sotto il naso a Belcore, o, alla fine, quando abbandona il marsupio pieno di droga accanto al nostro seduttore da strapazzo, completamente ubriaco si consola coram populo con la disinibita Giannetta, facendolo arrestare (per spaccio, quindi, più che per atti osceni in luogo pubblico). Ma tutto senza un'ombra di volgarità, perché caratteristica specifica di Michieletto è proprio quella di saper raccontare la realtà e parlare all'uomo di oggi senza trascurare il senso del gioco, della fiaba, della poesia. Anche nei suoi allestimenti più duri non manca uno spiraglio di luce di dolcezza, che poi potrà essere calpestato, come in Butterfly, ma comunque esiste, e ci tocca nel profondo.
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Il fatto di essere giovane padre d'una bellissima bambina non sembra estraneo a questa poetica, quasi una rivisitazione odierna e teatrale del fanciullino pascoliano, che filtra il mondo attraverso una sensibilità in grado di cogliere sfumature e legami più profondi, che ad altri sfuggono. Non di rado il punto di vista infantile e i bambini stessi hanno un ruolo importante nei suoi spettacoli, sempre senza ombra di stereotipo o di ammiccamento sentimentale. È un realismo crudo e magico allo stesso tempo, così come il mondo della fiaba, non edulcorato da qualche melassa politicamente corretta, ma con tutte le sue zone d'ombra, le sue simbologie, le sue violenze più o meno esplicite, le sue profondità.
Michieletto è oggi l’unico regista italiano a poter guardare negli occhi da pari a pari i mostri sacri internazionali come Vick, Carsen, Jones, Decker, McVicar, Guth. La nostra scuola pareva destinata a seguire il solco tracciato da titani come Strehler e Visconti, cui è seguita un’aurea tradizione sostenuta da illustratori del calibro di Zeffirelli e Pizzi, ai quali si è aggiunto, come un triumviro ribelle, il pressoché coetaneo Ronconi, la cui avanguardia - non a caso fondata in origine anche su collaborazioni con Pizzi, si è però consumata negli ultimi due decenni specialmente nella stanca riproposizione di stilemi ormai codificati ma privi di reale forza espressiva. Anche la linea storicamente scrupolosa pare - in questi ultimi lustri - inaridita. Abbiamo, oggi, Mario Martone, che ha trovato una propria via d’alta qualità per rinnovare la tradizione con ottimo uso degli spazi ed eccellente lavoro sull'attore (anche se i risultati sono stati alterni). Abbiamo l'ottimo lavoro di Andrea Cigni, più innovativo e spesso minimalista nelle ambientazioni, valorizzando soprattutto un'eccellente recitazione e l'abile creazione di atmosfere. Abbiamo l'immaginifico Davide Livermore, che invece ama sperimentare soluzioni tecnologiche ed effetti speciali spaziando dal divertissement all'operazione culturale o politica di più ampio respiro.
Il resto, ammettiamolo, è in ambito italiano di rilievo minore.
L'abbiamo detto, molti spettacoli di Michieletto (ma il discorso si potrebbe estendere ad ogni regista che non si attenga all'iconografia tradizione) sono stati discussi anche animatamente, non mancano i detrattori. Alcune critiche frequenti meritano però un'analisi e una risposta specifica.
Si dice che le cosiddette regie moderne non rispettino l'ambientazione “originale” e quindi, per corollario, l'autore stesso, snaturando infine il concetto stesso di opera lirica. Ora, un'opera lirica è un testo teatrale, che dunque vive quando viene messo in scena; è un testo musicale che vive quando viene eseguito. Ci scandalizziamo per le diverse interpretazioni di Toscanini, Karajan, Serafin, Muti, Abbado, Pappano, Thielemann, Rousset, Mariotti? Per le differenti letture di Benedetti Michelangeli, Argerich, Gould, Baharami, Wang? Il testo è sempre lo stesso, ma viene consegnato all'artista. La cosiddetta “volontà dell'autore” è per forza di cose circoscritta al contesto in cui l'autore visse, ma un capolavoro in quanto tale è eterno e universale e, per restare su questioni più pragmatiche, abbiamo precise notizie dell'attenzione dei grandi autori alla realizzazione scenica e a tutte le innovazioni tecniche in merito. Verdi, Boito, Wagner si preoccuparono dell'illuminotecnica e di tutti i possibili effetti speciali realizzabili, la caduta della prima del Mosé in Egitto rossiniano nel 1818 fu dovuta anche all'effetto malriuscito dell'apertura del mar Rosso, problema risolto nella ripresa del 1819, mentre poi il rifacimento francese si giovò di tutte le meraviglie a disposizione dell'Opéra di Parigi. Come possiamo escludere che oggi gli autori disprezzerebbero le soluzioni sceniche di Paolo Fantin, fondamentale collaboratore abituale di Michieletto, o le fantasmagorie di Livermore? L'opera è nata per parlare al pubblico contemporaneo, deve continuare a parlare al pubblico contemporaneo. Liberissimo poi chi vuole vedere il teatro solo come evasione in mondi fantastici o come una scrupolosa ricostruzione storica. Ma il teatro può e deve essere anche continua reinvenzione per stimolare la riflessione, l'emozione, per rinnovare pietà e terrore anche in chi vive in un mondo cambiato. Cosa significa ambiente originale? Sono forse originali le Madonne in abiti medievali o rinascimentali che ammiriamo nelle pinacoteche, era più originale la Violetta Valery che brinda ai tempi di Richelieu, quella ai tempi di Verdi, quella proustiana secondo Visconti o quella odierna di Vick o Carsen? L'oggi ci scandalizza come  ai tempi scandalizzò la storia della prostituta negli stessi costumi del pubblico che sedeva nei palchi; oggi la cortigiana in crinoline ci rassicura come allora rassicurava vederla in abiti rococò. E cosa corrisponde alla volontà di Verdi? Rassicurare o raccontare una storia che scuota gli animi, che turbi le coscienze? Caravaggio destò scandalo, gli impressionisti destarono scandalo. Il bello codificato perché passato e abituale, rassicura e piace in quanto tale, ma l'arte non è la ripetizione di un canone. Anche Canova venne criticato dai contemporanei perché troppo libero rispetto al modello classico.
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Michieletto dichiara che per lui il testo è sacro, ma il testo musicale e le parole che vengono cantate, non l'apparato di abitudini che si sono legate alla prassi esecutiva. Nemmeno le didascalie, che nascono come traccia fondamentale all'epoca in cui l'allestimento era affidato all'arte scenica dei singoli artisti e all'abilità degli scenografi e dei tecnici, ma non esisteva regia e non esisteva il concetto di repertorio. Se però andiamo a guardare il libretto dell'Elisir d'amore, vediamo che i riferimenti espliciti al lavoro nei campi sono pressoché assenti. Il coro iniziale parla di mietitori, ma non è detto che siano per forza mietitori a cantarlo: è gente che commenta la canicola e fa un paragone fra il contadino che trova ristoro dal sole e l'innamorato che invece non può sfuggire alla vampa d'amore. Quindi il coro ci dice che fa caldo, che siamo in un pomeriggio d'estate: allora possiamo benissimo essere in spiaggia. Lavorare sul testo puro e semplice senza farsi influenzare dall'iconografia tramandata è a suo modo filologico come lo è riproporre Il barbiere di Siviglia o Rigoletto lavorando sull'edizione critica senza badare a cadenze o tagli di tradizione.
Solo quando si interviene pesantemente sul testo – ma è piuttosto il caso di Tcherniakov – allora si può parlare di travisamento dell'opera, della sua trasformazione in altro. Ma non è detto che questo altro non sia artisticamente valido, basta avere chiaro cosa ci si trova di fronte, se l'opera o una sua rielaborazione.
Altra accusa ben curiosa che viene mossa a Michieletto e ai suoi colleghi è quella di ripetitività. Certo, se ci si ferma al dato esteriore, all'ambientazione. Abbiamo visto molte Butterfly, Bohème, Traviate ambientate ai giorni nostri, ma non sono altrettanto ripetitive quelle collocate ai primi del '900, nel 1830, nel 1850? Quel che conta è, sempre, la capacità del regista di raccontare una storia, di creare dei personaggi, di trasmettere un'idea, una lettura che funzioni e comunichi qualcosa al pubblico, lo emozioni, lo spinga a riflettere. Rispetto a questa istanza, tutte le valutazioni sull'ambiente sono secondarie, perché questo deve esser funzionale alla regia, non viceversa.
L'arte, peraltro ha sempre vissuto di influenze, richiami reciproci, allusioni, prese di distanza, rivoluzioni: possiamo mai pensare a un artista completamente isolato che crei senza nessun legame con i colleghi e con il mondo che lo circonda? Ogni opera, ogni interpretazione è inserita in un contesto diacronico e sincronico di cui non si può non tenere conto. Il capolavoro deve essere traghettato in ogni tempo per parlare ad ogni epoca, l'interpretazione può cambiare in base a queste coordinate, ne è necessariamente influenzata senza per questo che si debba sempre parlare di plagio e ripetizione.
Finora ho citato solo allestimenti di Michieletto che ho avuto il piacere di vedere dal vivo, non le due produzioni del Barbiere, non i drammi donizettiani (Lucia e Poliuto), Verdi (Luisa Miller, Il corsaro), la trilogia Mozart-Da Ponte o Il ratto dal serraglio.
Dalla visione televisiva, ora disponibile anche su youtube, mi concedo però di soffermarmi su alcune immagini della Bohème salisburghese. Cos'è La bohème se non la storia dei sogni di una gioventù idealista e impaziente che si scontra con la realtà, la morte, un mondo dominato dalla convenienza e dal denaro? Non è forse un tema attualissimo? Questi sentimenti non sono vivi oggi come due secoli fa?
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Michieletto ce li mostra oggi, con piccoli oggetti che vediamo ogni giorno negli empori cinesi, borse della spesa, ma anche una finestra aperta sui sogni di ogni bohèmien. Nella soffitta i ragazzi hanno un alberello di Natale, un abete di plastica da pochi euro, economico ed ecologico. L'avranno comprato per necessità magari mascherata da coscienza ambientalista. Ora hanno freddo, la stufetta a gas è scarica e vorrebbero accendere un fuoco: “Quelle sciocche foreste che fa là sotto la neve” canta Rodolfo rivolgendosi all'alberello, se avessero strappato un abete alle montagne innevate ora forse avrebbero un po' di legna da ardere. Ecco che una frase detta distrattamente dai tenori racconta una storia, acquista un nuovo spessore. Il Café Momus diventa un centro commerciale, nulla di meglio in realtà per superare l'antico problema mosso già al tempo della composizione per il rapporto fra spazi interni ed esterni in questa vigilia parigina. Ora tutto può svolgersi in modo più logico che non in tanti allestimenti “tradizionali”. Ora Parpignol è un personaggio da cartone animato, un acrobatico testimonial commerciale fra renne, babbi natale e pupazzi di neve, e se il bambino con innocenza e fantasia chiede tromba e cavallin, lui gli regala il suo bambolotto standardizzato. E tutti i ragazzini nei loro pacchetti colorati e scintillanti troveranno la stessa playstation: ecco in due pennellate dipinta l'omologazione del consumismo moderno. All'opposto, nel finale, mentre un incredulo Rodolfo avanza lentamente, timoroso e annichilito, verso l'esanime Mimì, sul  vetro appannato della grande finestra che i ragazzi vedevano aperta sul futuro una mano scrive teneramente il nome della giovane e poi lo cancella rapidamente. È tutto finito. Ci si commuove davvero, ci si sente d'improvviso veramente vicini a quei bohèmien. Se questo non è rispettare l'opera, farla vivere non so cosa sia, ma credo che Puccini, vedendo dei ragazzi di oggi vivere e morire cantando la sua musica e commuovendo il pubblico del 2012 sarebbe stato felice.

Crediti fotografici: Amati-Baciardi (Ancona), Foto Ennevi (Pesaro), Matteo Lanzoni (Lugo di Romagna), Ramella & Giannese (Torino), Neumayr, Herbert (Salisburgo)
Nella miniatura in alto: il regista Damiano Michieletto
Seguono, dall'alto in basso, foto di scena delle opere citate: La gazza ladra, Jackye O, La scala di seta, Sigismondo, Madama Butterfly, La bohème






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Incontro con Lorenzo Cutùli
servizio di Edoardo Farina FREE

20240215_Fe_00_LorenzoCutuliFERRARA - Il 100° anniversario dalla morte di Giacomo Puccini rappresenta un’occasione per commemorare e ripercorrere la vita e la carriera di uno dei più grandi musicisti italiani.  Le sue Opere, ancora oggi, continuano a essere rappresentate sui palcoscenici più prestigiosi del mondo, celebrando lo straordinario valore artistico delle composizioni
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Opera dal Nord-Est
Il Barbiere eccellente
servizio di Nicola Barsanti FREE

20240209_Ve_00_IlBarbiereDiSiviglia_BepiMorassiVENEZIA - Se pensiamo al fascino di un teatro risorto per più di una volta dalle proprie ceneri, e vi aggiungiamo la suggestione di esservi dentro nel vivo del carnevale della “Serenissima” non può venire in mente un gioiello della produzione rossiniana: Il barbiere di Siviglia. Ed è proprio a quest’opera che abbiamo assistito, la seconda in cartellone
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Opera dal Centro-Nord
Manon Lescaut e il gesto della Lyniv
servizio di Nicola Barsanti FREE

20240202_Bo_00_ManonLescaut_OksanaLynivBOLOGNA - Il Teatro Comunale Nouveau inaugura la propria stagione operistica 2024 con il primo vero e proprio gioiello della produzione pucciniana: Manon Lescaut. Ottima scelta per onorare il centenario della morte del compositore lucchese, avvenuta il 29 novembre del 1924 a Bruxelles.  La Manon Lescaut rappresenta per la carriera
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Echi dal Territorio
Bologna Festival numero 43
redatto da Athos Tromboni FREE

20240201_Bo_00_BolognaFestival_TeodorCurrentzis_phAlexandraMuravyevaBOLOGNA - La 43.esima edizione di Bologna Festival 2024, da marzo a novembre, presenta alcuni dei più interessanti direttori dell’odierna scena musicale quali Teodor Currentzis, per la prima volta a Bologna con la sua orchestra musicAeterna, Vladimir Jurowski con la Bayerisches Staatsorchester e Paavo Järvi con la Die Deutsche
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Jazz Pop Rock Etno
Jazz e altro allo Spirito
redatto da Athos Tromboni FREE

20240129_Fe_00_IlGruppoDei10_TutteLeDirezioni_FrancoFasano.JPGFERRARA - Varato il calendario dei concerti "Tutte le Direzioni in Winter&Springtime 2024", organizzata da Il Gruppo dei 10 con qualche novità e collaborazione in più rispetto ai precedenti. La location è (quasi sempre) la stessa: il ristorante lo Spirito di Vigarano Mainarda (Ferrara), nell’intimo tepore delle sue suggestive sale, immerso nella
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Opera dal Centro-Nord
La bohème visual della Muti
servizio di Athos Tromboni FREE

20240127_Fe_00_LaBoheme_ElisaVerzier_phFabrizioZaniFERRARA - Suggestivo l'allestimento di La bohème di Giacomo Puccini curato da Cristina Mazzavillani Muti per il Teatro Alighieri di Ravenna, approdato ieri sera al Comunale "Claudio Abbado" di Ferrara. Pubblico della grandi occasioni ("sold-out" si dice oggi, con un inglesismo ormai sostitutivo di "tutto esaurito" d'italiana fattura); pubblico
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Opera dal Nord-Ovest
Don Pasquale allestimento storico
servizio di Nicola Barsanti FREE

20240127_To_00_DonPasquale_NicolaAlaimo_phAndreaMacchiaTORINO - Il titolo designato per l’inaugurazione del cartellone d’opera 2024 del Teatro Regio di Torino è il Don Pasquale di Gaetano Donizetti. Qui riproposto nel fortunato allestimento della fine degli anni '90 del Novecento, firmato da uno dei maestri della drammaturgia musicale italiana: il regista, scrittore e giornalista Ugo Gregoretti, la cui regia
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Jazz Pop Rock Etno
Jazz Club Ferrara 45 concerti
redatto da Athos Tromboni FREE

20240124_Fe_00_JazzClub_GennaioMaggio2024FERRARA - Dal 26 gennaio 2024, prende il via al Torrione San Giovanni la seconda parte della 25.ma stagione di Ferrara in Jazz. Grandi nomi del jazz internazionale e largo spazio ai giovani, per complessivi 45 concerti accompagnati da eventi culturali collaterali, realizzati con il contributo del Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna, Comune
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Opera dal Nord-Est
Bolena e Seymur destino congiunto
servizio di Rossana Poletti FREE

20240123_Ts_00_AnnaBolena_SalomeJicia_phFabioParenzanTRIESTE – Teatro Verdi. Nell’ Anna Bolena di Gaetano Donizetti, in scena al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, primeggia la qualità del cast. Un gruppo di cantanti straordinari, che contribuiscono in modo determinante al buon esito della rappresentazione. Se si eccettua qualche piccola quasi impercettibile incertezza nel primo atto la prova
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Opera dal Nord-Ovest
Haroutounian una Butterfly di riferimento
servizio di Simone Tomei FREE

20240121_Ge_00_MadamaButterfly_phMarcelloOrselliGENOVA – Prosegue con successo la stagione del Teatro Carlo Felice grazie ad una bellissima produzione dell’opera “nipponica” di Giacomo Pucccini, Madama Butterfly. Il contesto scenico-registico firmato da Alvis Hermanis si sviluppa in uno spettacolo sostanzialmente classico e iconografico dove l’immagine stereotipata del Giappone
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Opera dal Centro-Nord
Un Trovatore così così
servizio di Nicola Barsanti FREE

20240121_Li_00_IlTrovatore_MatteoDesole_phAugustoBizziLIVORNO - Torna a distanza di 50 anni di assenza al Teatro Goldoni e 27 anni dopo la sua ultima apparizione nella città di Livorno (ma fu al Teatro La Gran Guardia) Il trovatore, uno dei titoli più amati di Giuseppe Verdi. Un ritorno tanto atteso che non convince, pertanto inferiore alle aspettative. Gli anelli deboli di questa produzione riguardano
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Opera dal Centro-Nord
Barbiere di Siviglia stratosferico
servizio di Nicola Barsanti FREE

20240120_Pr_00_IlBarbiereDiSiviglia_DiegoCeretta_RobertoRicciPARMA - Il Teatro Regio di Parma inaugura il cartellone d’opera del 2024 con il fiore all’occhiello di Gioacchino Rossini: Il Barbiere di Siviglia. Com’è noto ai più, nel 1782 Giovanni Paisiello scrisse un’opera dallo stesso titolo e con lo stesso soggetto, da qui la decisione del maestro di Pesaro di intitolare la sua nuova composizione (almeno in un primo
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