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Il Teatro Verdi di Pisa in sold out per l'opera più sanguigna della trilogia romantica di Verdi |
Trovatore tradizionale e godibilissimo |
servizio di Simone Tomei |
Pubblicato il 12 Novembre 2017 |
PISA - Il Trovatore di Giuseppe Verdi: ogni volta che mi trovo ad affrontare questo secondo titolo della cosiddetta “Trilogia popolare" riesco a trovare qualcosa che ancora mi stupisce e che suscita in me profonde emozioni. Parlando del Trovatore mi piace ricordare questo pensiero di Bruno Barilli (tratto da Il paese del melodramma) che parla di quella composizione come uno dei momenti più alti della vena compositiva del Cigno di Busseto: «... A parer nostro egli raggiunse con un’immediatezza tutta meridionale il più eccelso culmine della bellezza proprio nel Trovatore... Ecco dove l’arte di Verdi, che è tutta sovvertimento, deformazione, caricatura sublime, mette a fuoco i quattro canti della terra. Il suo ritmo prodigioso e veemente, scagliato con la fionda, durevole come il bagliore di una scarica cosmica, arrossa tutto il cielo vibrante dell’arte. Lì ribolle entro schemi rozzi, ma larghi e solidi, il suo temperamento facinoroso e straordinario, sussulta la sua natura copiosa, scoppiano i suoi canti capovolti, ripresi e innalzati clamorosamente. Chi è abituato per una certa dimistichezza a ficcar le dita fra gli ingranaggi dei componimenti musicali, fa un salto indietro e rimane trasecolato al prorompere della sua foga folgorante e irreparabile.» L'ascolto di cui vi narro qui, si è concretizzato al Teatro Verdi di Pisa il 10 novembre 2017, giorno che ha quasi coinciso con quello esatto in cui si sono celebrati i 150 anni della fondazione del Teatro cittadino; tale ricorrenza cadeva proprio il successivo 12 novembre, dì di giubilo ed iniziative mirate ad esaltare questo importante evento. Il Trovatore, come dicevo prima, opera di fascino, di emozioni, di scoperte sempre nuove che permettono di esaltare con maggior enfasi una partitura ed un libretto che già tutto in sé comprende per quanto concerne lo sviluppo drammaturgico; un lavoro che parla da solo e nel quale la mano del regista deve porsi con estremo rispetto e con i guanti bianchi in modo da non alterare gli equilibri - seppur a tratti contraddittori - stabiliti dal compositore e dal librettista. L'allestimento visto a Pisa nasce nella Fondazione Teatro Lirico Verdi di Trieste in coproduzione con la Fondazione dei Teatri di Reggio Emilia, Fondazione Teatro Comunale di Modena e la Fondazione Teatro di Pisa. L’impegno registico del M° Stefano Vizioli si è essenzialmente concretizzato, assieme alle scenografie ed i costumi di Alessandro Ciammarughi, nella realizzazione di un lavoro sulla scia della tradizione riuscendo a trovare un ottimo compromesso tra scene e drammaturgia senza sostanzialmente tradire le preziose didascalie librettistiche; il "sostanzialmente" è d'obbligo perché qualche incursione un po' maldestra non è mancata soprattutto nelle scene corali di inizio del secondo e terzo quadro dove sono protagonisti i gitani: come ho espresso in altri contesti, non amo vedere scene di violenza gratuite di cui il mondo reale è già saturo; se la drammaturgia non lo richiede non è necessario vedere sgozzamenti in scena tra l'altro ben fatti, ma di dubbio gusto e contestualizzazione; reputo abbastanza superflui anche i balletti con i coltelli e con le alabarde dell'avvio del terzo atto tra l'altro sviluppati con una coreografia piuttosto grottesca ed alquanto rozza; il canto, il dramma, come tengo a sottolineare, sono più che sufficienti; tutto il resto è inutile e direi, senza mezzi termini, brutto. Per il resto l'intelligente scenografia multifunzionale ha saputo ben delineare gli ambienti scenici con gaudio per l'occhio e probabilmente anche per i portafogli dei coproduttori, ma questo interessa il giusto visto che l'effetto finale è di tutto rispetto.
  

L'architettura basilare era costituita da due scalinate che opportunamente disposte hanno sortito lo scopo di delineare le otto scene in cui si dipanano i quattro atti con un sagace apporto di pannelli che all'uopo si componevano a mo' di sipario per permettere un rapido cambio in itinere dei contesti. Le luci curate da Franco Marri, in alcuni momenti sono state davvero suggestive per far emergere ancor più intensamente il carattere dei personaggi per i quali ho notato un interessante lavoro interpretativo. L'apporto musicale ha saputo ben suggellare una produzione complessivamente valida nella quale si è distinto con grande professionalità il M° Andrea Battistoni riuscendo a realizzare grazie all'Orchestra dell'Opera Italiana ottime dinamiche ed una scelta dei tempi direi curata nel minimo dettaglio; in passato non sono mai stato troppo incline al "modus dirigendi" di questo musicista trovandolo spesso piuttosto approssimativo e troppo irruente; in questo contesto posso asserire con ferma convinzione che quegli aspetti che in passato ho sottolineato hanno trovato qui un forte ridimensionamento e posso tranquillamente rilevare come sia stata quasi certosina la cura delle sfumature, degli accenti e delle sonorità, sì da trovare un collaborativo rapporto con il palcoscenico aiutando gli interpreti ad esprimere al meglio le nuances dei personaggi e trovando sicura coesione nei bellissimi momenti di assieme. Il Conte di Luna ha trovato nel baritono Sergio Bologna un elegante e signorile interprete che ha saputo ben tradurre le emozioni del nobile innamorato; la voce è salda, potente e ben proiettata e l'esperienza ha sicuramente agevolato un'interpretazione molto precisa e dosata senza mai eccedere in accenti sguaiati, ma dirigendo la vocalità verso sicuri acuti sonori e squillanti; nessun dubbio nemmeno scenicamente dove la vis drammatica è stata bene esplicitata con istrionicità e scaltrezza. Il soprano Vittoria Yeo è stata per me una scoperta; al mio primo ascolto in assoluto ho notato una freschezza vocale unita ad un timbro di sicuro fascino, ammaliante e spavaldo; una Leonora fragile ed innamorata che nel primo atto non fatica a trovare accenti più drammatici nel terzetto finale; ottima interprete nel quarto atto con la capacità di mutare accenti ed emozioni: D'amor sull'ali rosee è stata un cesello di colori e di intenzioni per poi mutarsi in una vis più veemente e risoluta nel tragico duetto con il Conte di Luna, con l'ecletticità anche interpretativa di virare poi nel finale in uno stato quasi "di grazia" dove la voce ha saputo ben tradurre tutte le emozioni che sprigionano dalle parole e dalla melodia.
 Il personaggio della zingara Azucena ha trovato nel mezzosoprano Silvia Beltrami un'eccellente interprete (vi consiglio la lettura di una mia recente intervista a lei che potrete trovare qui); le classiche prerogative del personaggio come lo si può immaginare nella sua accezione più nota, qui cedono il passo ad una lettura alternativa che riesce comunque a non tradire le sue peculirità: non è una madre vecchia e logora, bensì ancora nel fiore degli anni; una freschezza che trova la sua corrispondenza nei costumi, negli accessori e nel trucco che tendono ad esaltarne l'immagine radiosa e fresca, come radiosa e fresca risulta la sua vocalità; di questa brava artista è giusto mettere in luce una uniformità di colore in tutta la gamma dei suoni; una solida corposità e un'intelligenza interpretativa che l'ha portata ad esaltare ogni accento ed ogni nota della partitura; se Stride la vampa ha messo in luce eleganza e stile, Condotta ell'era in ceppi ha suggellato bravura e professionalità dimostrando istrionismo con naturale facilità nell'adattare il registro vocale alle esigenze della musica con un servizio preciso e puntuale alla parola cantata; l'ars-scenica ha trovato preciso compimento per delineare in maniera completa un personaggio affascinante, ma di difficile interpretazione. Qualche nota più dolente sono costretto ad evidenziarla per il ruolo di Manrico in cui il tenore Leonardo Gramegna è completamente sprofondato come se stesse attraversando un terreno di sabbie mobili; l'evidenziazione di un timbro di piacevole bellezza non può esimere dal mettere in luce una vocalità che non riesce a trovare lo sfoggio necessario in acuto con difficoltà in un'emissione fluida e squillante; qui la voce perde di smalto e retrocede in suoni ingolati e secchi, periclitando anche nell'intonazione; anche il fraseggio è stato piuttosto latente in tutta la sua interpretazione come pure la capacità di smorzare i suoni e, ove si è cimentato, ha restituito note opache, poco sonore senza la dovuta proiezione. Signorile approccio quello di Francesco Milanese nel ruolo di narratore affidato al soldato Ferrando; nella sua ampia pagina introduttiva nell'oscurità scenica, è stato un pennellatore di sfumature vocali nel raccontare gli antefatti, senza mai scadere nella routine. Il cast è stato degnamente completato da una brava Simona Di Capua nei panni della confidente Ines, dallo spavaldo Ruiz di Simone Di Giulio e da Enrico Gaudino (Un vecchio zingaro) e Gian Marco Avellino (Un messo).

Il Coro Claudio Merulo di Reggio Emilia, capitanato dal M° Martino Faggiani, ha completato un piacevole quadro con degno impegno vocale riscontrando nella parte maschile delle ottime voci e una solida amalgama. Teatro quasi esaurito e pubblico soddisfatto per sigillare, con la "ceralacca" di applausi, un successo per tutti.
Crediti fotografici: Imaginarium Creative Studio e Alfredo Anceschi per il Teatro di Pisa Nella miniatura in alto: il regista Stefano Vizioli Al centro in sequenza: Sergio Bologna (Conte di Luna); Vittoria Yeo (Leonora); Leonardo Gramegna (Manrico); Gramegna con Silvia Beltrami (Azucena) e ancora con la Yeo Sotto: ancora la Beltrami In fondo: istantanea di Alfredo Anceschi sull'allestimento
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