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La penultina opera di Verdi molto applaudita a Ravenna durante la Trilogia d'Autunno 2018 |
Ovazioni finali per l'Otello |
servizio di Attilia Tartagni |
Pubblicato il 26 Novembre 2018 |
RAVENNA - Il 25 novembre, giornata mondiale della violenza sulle donne, è andato in scena al Teatro Alighieri il più celebre “femminicidio” operistico: Otello dall’omonimo testo teatrale di William Shakespeare, musica di Giuseppe Verdi, libretto di Arrigo Boito, antico detrattore verdiano che seppe riportare il maestro alla creazione a 16 anni da Aida. “Il cioccolatte” mi gira sempre attorno”, scriveva Verdi riferendosi al personaggio del Moro durante la lunga gestazione dell’opera conclusa nei suoi 74 anni; ebbene Otello è stato il terzo titolo della Trilogia d’Autunno 2018 del Teatro Alighieri. Sono tre i personaggi meravigliosamente cesellati dalla partitura in cui si fondono canto, suono e gestualità teatrale in un linguaggio inedito, essenziale e così espressivo da prefigurare l’espressionismo: un’architettura retta dai tre giovani interpreti, tanto talentuosi e convincenti da azzerare, specie nel III e IV atto, il distacco emotivo fra scena e pubblico inesorabilmente attirato nel crescendo drammatico che sfocerà nell’uxoricidio.
 Sono tutti debuttanti nel ruolo i protagonisti dell’allestimento ravennate, che si conferma palestra e trampolino di lancio, si spera, verso una brillante carriera, perché se l’opera ha vissuto fino a qui per i suoi valori intrinseci, sono le buone rappresentazioni a rigenerarla e a proiettarla nel futuro. Otello è il tenore georgiano Mikheil Sheshaberidze, fiero condottiero che crolla come un gigante d’argilla sotto la perfidia di Jago, alle prese con un “recitar cantando”, lui straniero, difficile ma ben risolto. Il soprano Elisa Balbo interpreta una “mistica” e compiuta Desdemona, ignara vittima sacrificale della brutalità del marito (“non sei forse una vil cortigiana ?”), precipitata in un abisso di cui non sa darsi ragione (“esterefatta fisso lo sguardo tuo tremendo, in te parla una Furia, la sento e non l’intendo) eppure stoica nel suo ruolo muliebre, fedele al marito e a Dio, soave nelle emissioni, deliziosamente fragile e bionda contro la massiccia figura di Otello. Jago, deus ex machina che trama nell’ombra, è il baritono Luca Micheletti, mobile in scena come uno spiritello maligno (ha fatto teatro di prosa con Ronconi prima di scegliere il canto) e superbo nell’esplorare gli abissi della cattiveria umana nel “Credo”. La sua presentazione programmatica (“Son scellerato perché son uomo; e sento il fango originario in me”) fa da contrappunto all”Ave Maria” sussurrata da Desdemona ormai conscia di essere condannata. Tante virtù annovera questa opera che ha per incipit la scena di massa della tempesta conclusa dall’”Esultate”, acuto trionfale del Moro, possente condottiero che, sanati i conflitti, si abbandona alle dolcezze coniugali, e si conclude, dimenticate battaglie, onori, amore, nell’intimità del talamo coniugale richiamando tragicamente il duetto del primo atto. Quel primo scambio amoroso è la chiave della fragilità del moro schiavo, esule, perseguitato, nobilitato dai successi militari e dall’amore della moglie veneziana. Basta un sospetto di tradimento per farlo vacillare e una falsa prova di tradimento a distruggerlo. La tempesta è deflagrazione di sonorità, incantesimo timbrico, esplosione drammatica di onde ritmiche, il “Fuoco di gioia” scandito dai balli dei DanzActori vibra di lingue incandescenti e ci sono ancora sporadici momenti di gioia prima che il buio cali progressivamente sulla scena ottenebrando la mente di Otello a cui nel secondo atto l’orizzonte sembra alludere passando dal verde al blu al viola striato di nero fino all’oscurità totale. Il trono coronato dalla testa di leone, simbolo di potere comune alle tre opere, presto si spoglia di ogni interesse per Otello preso dal delirio. Dirompente è il rapporto fra la musica e i versi del poeta Boito. “A terra! …sì… nel livido fango….percossa……E un dì sul mio sorriso fioria la speme e il bacio ed ora….l’angoscia in viso e l’agonia nel cor” canta Desdemona scaraventata a terra dal marito, mentre sta per esplodere l’emozionante concertato e le donne della corte strisciano verso di lei, icone di un comune destino, tema caro alla regista Cristina Mazzavillani Muti che, affrontando lo scavo del maturo disincantato Verdi, ha dato ampio spazio alla drammaturgia delle parole, delle note, della recitazione minimizzando l’apporto tecnologico, affiancata dal lighting designer Vincent Longuemare e da Alessandro Lai per i costumi che, nel tagliente chiaro-scuro, rimandano al seicento di Caravaggio e Rembrandt.

Nella cronaca di ogni giorno, anche quella che non viene alla luce, quante donne passano, come Desdemona, dalla magia dell’amore ricambiato, imprescindibile conforto del genere umano, al disincanto delle percosse, alla disgregazione della personalità e al timore per la propria vita? Impossibile dunque assistere senza lacrime a questo dramma lontano e mitico, reso più autentico e attuale dal linguaggio operistico. Neanche Shakespeare, nel suo teatro, ha potuto tanto, ci voleva la parola cantata, ci voleva questa musica senza tempo che scava negli abissi dell’anima e in cui ciascuno può trovare la propria catarsi. Altri efficaci interpreti sono Giuseppe Tommaso (Cassio), Giacomo Leone (Roderigo), Jon Stancu (Lodovico), Paolo Gatti (Montano) e l’ Emilia di Antonella Carpenito che nel finale vorremmo più dirompente nella denuncia del marito Jago. Il coro, non più protagonista, si limita a scandire le situazioni lasciando spazio al personaggio “Ovvero l’uomo che, nelle sue infinite sfaccettature, può essere tutto e il contrario di tutto - annota la regista - come accade nella vita, e nel teatro più puro” . Il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, guidato da Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina, è magnifico nella tempesta. Spetta invece al Coro di Voci Bianche Ludus Vocalis preparato da Elisabetta Agostini incorniciare l’innocenza di Desdemona. L’Orchestra Giovanile Cherubini sotto la guida del M° Nicola Paszkowski sostanzia e restituisce la complessità armonica, la raffinatezza timbrica, l’inedita drammaticità di questa virtuosa compenetrazione di suono e canto. Ovazioni finali per tutti, interpreti in testa, per un “Otello” che spacca il cuore e vi si insinua per sempre ispirando un suggerimento: perché non educare gli studenti al rispetto di genere partendo proprio dall’arte operistica, così ricca, sfaccettata, emozionante e umana? Ci si augura che gli adolescenti e i bambini che hanno assistito alle prove generali di “Otello” e di tutta la Trilogia, vengano accompagnati dai docenti a scrutare oltre la superficie della visione e dei fatti per entrare nelle dinamiche psicologiche ed emotive che sono, ora come allora, il fondamento delle relazioni umane. In tempi di crisi economica, di “villaggi globali”, di conflitti fra razze e fra generi, di automazione che sembra travolgere la stessa natura umana, vale ancora il suggerimento del saggio M° Verdi: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”.

Crediti fotografici: Zani-Casadio per il Teatro Alighieri di Ravenna Nella miniatura in alto: il tenore Mikheil Sheshaberidze (Otello) Sotto: ancora Sheshaberidze con Luca Micheletti (Jago) Al centro: scena finale dell'opera con Mikheil Sheshaberidze ed Elisa Balbo (Desdemona) sul letto di morte della messinscena In fondo: istantanea di Zani-Casadio su costumi e allestimento del Teatro Alighieri
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