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L'opera di Wagner raccontata dal regista Claus Guth è uno spettacolo avvincente come pochi

Lohengrin e il tabù del nome

servizio di Roberta Pedrotti

Pubblicato il 05 Gennaio 2013

130101_Mi_Lohengrin00_phRudyAmisanoMILANO - Nel racconto biblico della Genesi, Dio affida il creato all'uomo delegandogli la scelta del nome di tutti gli animali; i faraoni egiziani erano noti con il nome ufficiale d'intronizzazione, mentre quello autentico, privato era tenuto rigorosamente segreto; Faust chiama per nome gli spiriti, e nella scienza alchemica questo gli dà il potere di dominarli; nel finale di Turandot il Principe finora ignoto proclama “Il mio nome e la vita insiem ti dono!”; oggi, infine, perfino il perfido Voldemort di Harry Potter è detto semplicemente “Colui che non deve essere nominato”, e la sua originaria identità di Tom Riddle è segreto per pochi iniziati. Il nome rappresenta in ogni tempo e in ogni cultura, nel mito e nella fiaba, l'equivalente magico dell'essenza, possederlo conferisce un potere assoluto su di essa e il suo potere evocativo è pertanto oggetto di tabù come ogni sete di conoscenza che travalichi i limiti imposti all'umano dal sovrumano, che varchi il confine fra naturale e sovrannaturale.
Si tratta dunque di un tabù strettamente legato alla proibizione, sempre biblica, dei frutti dell'albero della scienza del bene e del male o alla condanna dantesca del “folle volo” di Ulisse: folle proprio perché sprezzante dei limiti imposti all'umano. Edipo stesso, è colpito dalla sciagura nel momento stesso in cui la sua sapienza gli ha conferito la massima gloria, e sarà l'ultima scoperta, la conoscenza di sé a farlo precipitare nella catastrofe. Così la felicità di Eros e Psyche è indissolubilmente legata per lei al vincolo del silenzio, all'impossibilità di conoscere l'identità dello sposo, che le basta osservare una sola volta alla luce di una candela per perdere, così come la curiosità dubbiosa di Orfeo perde Euridice. Il mistero deve rimanere tale, l'umano non deve sfidarlo, anzi, deve contenere l'innata sete di sapere e imporre un limite alla parola e con essa al logos. Un topos, questo, ricorrente nel mondo della fiaba e notevole soprattutto in racconti come I sei cigni, riportato dai Grimm, e la quasi identica I cigni selvatici di Andersen, in cui il voto del silenzio è la condizione per cui la principessa, perseguitata e condannata ingiustamente senza possibilità di parlare per discolparsi, può salvare i fratelli tramutati in uccelli.
I personaggi del Lohengrin sono eredi di questo mondo mitico, ne sono parte.
Lohengrin è il cavaliere che appare nei sogni di Elsa e da questi viene evocato. Anzi, è materializzato come una proiezione dell'amore fraterno della fanciulla: lui dovrà salvarla, lui dovrà liberarla da un mondo ostile, dai sensi di colpa, lui dovrà amarla e guidare la liberazione sua e del suo popolo. A questo amore una sola clausola è sigillo: l'oblio dell'identità, la negazione delle origini. Elsa e Lohengrin non possono conoscersi e riconoscersi perché nella realtà ella, come causa della sua apparizione, gli è in un certo senso genitrice, egli, materializzando l'amore per Gottfried, le è in un certo senso fratello. Solo ignorando questa realtà potranno amarsi. Di fatto Lohengrin sembra sottrarsi, celando il suo segreto, a un contatto che pure desidera, e solo nel finale sembra potersi concretizzare nell'estrema supplica di superare tutto quel che è passato, di ignorare il nome e sostituire all'indagine la fiducia e l'amore disinteressato. Affermare il proprio nome non è solo svelarlo a Elsa, è svelarsi a se stesso, e come per Edipo questa scoperta è devastante, annichilisce ogni speranza di umana felicità. Come per Edipo, per Lohengrin l'amore è una sorta d'incesto, anche senza considerare che nel corpus leggendario più antico relativo al Chevalier au cygne, spesso la donna salvata appare come madre o comunque consaguinea del salvatore, e che nelle fiabe dei Grimm e di Andersen è la sorella, con il suo silenzio anche a costo di condanne e calunnie da cui non può difendersi, la diretta salvatrice dei fratelli. Infatti Elsa, nel finale, invoca lo sposo (“Mein Gatte”) rivolgendosi non più al cavaliere, ma a Gottfried, in quello stesso lago in cui anni prima era scomparso. Scomparso giocando al cavaliere con una spada e una corona di penne di cigno, giocando a proteggere sua sorella: ora di lui non restano che una scarpina e la giacca, ripescate nel lago. Lohengrin riappare scalzo e senza giacca, mentre nell'aria planano piume bianche. Ritroverà la coroncina in riva al lago, la osserverà turbato e la getterà via. È sperduto, mostra segni di nevrosi e insicurezza: gli è negata un'identità, forse nemmeno la conosce, ma proprio il sapere, la consapevolezza di sé è fatale per lui, la cui ragion d'essere è solo nella responsabilità della missione per cui è evocato, per cui è inviato. Puro folle, come il padre (o come Ulisse: in lotta contro i confini fra lecito e illecito, fra naturale e sovrannaturale?), diviene finalmente un uomo al pari degli altri nell'esperienza del sangue, nelle tre azioni che segnano la sua maturità: il contatto carnale con Elsa, l'assassinio brutale di Telramund,  la dichiarazione delle proprie origini e della propria identità.  Nel primo caso, conoscenza del bene, supererà l'istintiva timidezza e refrattarietà fisica anche se il rapporto non si concretizzerà; nel secondo, conoscenza del male, le mani imbrattate di sangue saranno motivo d'angoscia e vergogna, di convulsi tentativi di cancellare ogni traccia della violenza compiuta; infine la coscienza di sé anche di fronte alla comunità ammette la fine della missione e della ragion d'essere di Lohengrin, che regredisce e si dissolve com'era apparso per riapparire nelle sembianze del suo alter ego Gottfried, di cui era proiezione adulta e perturbante, che trasformava in amore coniugale e fin sensuale quello fraterno e reciprocamente protettivo frustrato in Elsa. Le tre azioni si compiono in quello stesso lago in cui Gottfried era sparito e da cui tutto era iniziato, ma più che uno spazio reale sembra uno spazio dell'anima e della psiche che pian piano irrompe in un palazzo nel quale le dimensioni dell'interno e dell'estero, del pubblico e del privato sono connotate con ambiguità, e resta alla coppia protagonista un solo porto franco, il pianoforte, rifugio poetico e ritorno all'infanzia felice, a un'utopica felicità, una purezza sognata e rimpianta, divelta e ribaltata nel terzo atto, preludio a un tragico finale in cui ogni fragile individualità soccombe a riaffermarsi di un ordine illusorio ma implacabile. In cui tutto è inghiottito dalle acque che un tempo avrebbero inghiottito Gottfried.

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La collettività è inevitabilmente coinvolta, l'opera intima è anche politica in senso lato, mostra le ombre inquietanti del coro in abiti da sera borghesi, il nuovo mondo che avanza e che tutto stritola, tutto cambia perché nulla cambi. Stritola anche il sogno della sposa Elsa vestita come Angelica al ballo del principe di Salina, anche l'ambizione di Ortrud, in costume identico ma completamente nero, di entrare in questo sistema e dominarlo dall'interno ma con valori antichi, arcaici, ormai superati. E Lohengrin, prima di soccombere, sorride come un bambino calpestando le giacche che l'aristocrazia borghese pone sotto i suoi piedi e trasforma un rito di supremazia in un gioco incosciente.
Questo è il Lohengrin secondo Claus Guth (con i suoi collaboratori: lo scenografo e costumista Christian Schmidt, la drammaturga Ronny Dietrich, lo straordinario ideatore luci Olaf Winter e il coreografo Volker Michl) andato in scena per l'inaugurazione della stagione 2012/2013 della Scala di Milano. Uno spettacolo che s'imprime nella mente e lascia una traccia indelebile per la coerenza intellettuale con cui ribalta l'iconografia cavalleresca dell'eroe luminoso che scompare dopo aver salvato la sua dama, o meglio ne sviluppa l'altra faccia della medaglia, con lo stesso spirito con cui Euripide prima, gli ellenisti poi rilessero il mondo del mito. Uno spettacolo avvincente come pochi, in cui ogni dettaglio non vuole essere necessariamente un simbolo, peccando dunque d'eccessivo intellettualismo, ma ha comunque un senso preciso in un complesso perfettamente costruito, pensato in modo organico e intelligente, così da fornire oltre a una narrazione chiara e a psicologie ben definite, continui stimoli di riflessione. Uno spettacolo costruito realmente con la musica e i musicisti, con artisti intelligenti che contribuiscono attivamente a creare personaggi approfondito a 360 gradi, nella sua storia e nella sua umanità.
Non sembrerebbe possibile, infatti, pensare qui a un Lohengrin diverso da Jonas Kaufmann, musicale quanto intelligente, è una vera opera d'arte totale, in cui non si sa se ammirare prima – e di fatto non possiamo ammirare separatamente – il carisma dell'attore strepitoso, la recitazione sublime,la poesia e l'incisività dell'unione fra parole e musica, senza dimenticare che il physique du role è quanto di meglio si possa desiderare (ma i pregi dell'arte arrivano a mettere in secondo piano la generosità della natura). Non v'è suono che non abbia senso, che non trasudi un profondo pensiero d'artista, e il racconto del Graal è un capolavoro assoluto in un terzo atto eccezionale, anche per la straordinaria cura dinamica e coloristica con cui cesella il testo, e mantiene la sala con il fiato sospeso (la sola messa di voce sulla parola “Taube”, poi, varrebbe l'intera serata). L'emissione non è sempre ortodossa e la mezzavoce non corrisponderà ai canoni della perfetta tecnica? Quando si può esprimere un tale spettro d'emozioni e sensazioni, di dolore, smarrimento, incertezza, tenerezza, desiderio, coraggio, incoscienza, consapevolezza, sacrificio, poco importa. Quando lo si fa con tale intrinseca musicalità, con voce sempre presenta, capace di piegarsi alla volontà dell'artista senza perdere in sicurezza, controllo, omogeneità potremmo desiderare di più? Lohengrin, questo Lohengrin, idole fragile, era lì, davanti a noi, sul palcoscenico, accanto alla sua Elsa, Anja Harteros, altra cantante intelligente ed elegante, che sa affrontare con saldezza vocale davvero notevole soprattutto nel grande cimento del duetto del terzo atto. Anche accanto a un partner superlativo come Kaufmann, s'impone e delinea benissimo una giovane nobildonna agitata da fantasmi interiori, sola e tradita da un mondo ostile, disperatamente aggrappata ad un mondo onirico e di affetti cui da vita e consistenza, seppur effimera, fino a soccombere essa stessa. Ortrud, però, è l'altra vera dominatrice della scena: Evelyn Herlitzius possiede un carisma magnetico anche quando appare semplicemente immobile, senza cantare, è una severa istitutrice, la sposa del tutore dei piccoli duchi di Brabante, che svela man mano una natura titanica e demoniaca, sensuale e sottile, aggredendo con accenti agghiaccianti e serpentini ogni frase, manipolando un marito succube e ormai votato all'alcool, un uomo che non l'ha mai amata ma che ne è divenuto inesorabilmente dipendente. Questi, Tòmas Tòmasson, Telramund, è senza dubbio, al par dei colleghi scenicamente eccellente, ideale, ma nettamente inferiore come musicista, ma non all'altezza del ruolo e del contesto per i frequenti problemi in acuto e d'intonazione. Autorevole e incisivo l'Heinrich di René Pape e di pregio anche l'Araldo di Zeliko Lucic, voce sempre splendida, peccato per qualche durezza in alto. In gran forma il coro preparato da Bruno Casoni, a posto i nobili brabantini (Luigi Albani, Giuseppe bellanca, Giorgio Valerio, Emidio Guidotti) e i paggi (qui damigelle d'onore, Lucia Ellis Bertini, Silvia Mapelli, Marzia Castellini, Giovanna Pinardi), straordinari i figuranti, soprattutto i bambini.
Daniel Barenboim sposa con entusiasmo la lettura antieroica, declinando il lirismo espressivo un'idea forse più morbidamente poetica che analitica e psicologica. Il suo gesto, più che vivido e teatrale, è di sensibile narratore attento alle dinamiche e ai colori, ma proprio per questo, in simbiosi con un'azione che si sviluppa più nell'anima che dei fatti reali, risulta avvincente e affascinante, quasi eco dolce e malinconica di un mondo antico cui tutti anelano e che nessuno più possiede, perdendosi nei meandri del dolore e dello smarrimento in un mondo ostile. Una dicotomia che il podio sottolinea con finezza e alto sentire, particolarmente ispirato, e in stato di grazia nel terz'atto, in quest'ultima recita. Che, infatti, registra un trionfo calorosissimo, con applausi scroscianti e ripetute chiamate al proscenio per tutti gli artisti (qualche giustificato mugugno solo per Tòmasson).
Questo successo chiude ogni discussione e ogni polemica sulla validità e la fruibilità del lavoro attribuito a Guth ma in realtà condiviso da tutta la compagnia in una vera sintesi di musica e dramma: tutta la sala è rimasta attenta, con il fiato sospeso, in un clima d'irreale partecipazione per quasi cinque ore, esplodendo poi in ovazioni liberatorie. Basta questo per decretare che l'operazione è perfettamente riuscita e che questo Lohengrin è destinato a rimanere nella storia?

Crediti fotografici: Rudy Amisano per il Teatro alla Scala di Milano
Nella miniatura in alto: il tenore Jonas Kaufmann nel ruolo di
Lohengrin
Nella fotosequenza: immagini significative della messinscena ideata da Claus Guth e diretta da Daniel Barenboim






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