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Ottimo allestimento in luogo insolito per l'opera di Giuseppe Verdi, terzo titolo del Festival 2019

Luisa Miller nella chiesa-carcere

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 29 Settembre 2019

190929_Pr_00_LuisMiller_FrancescaDotto_phRobertoRiccciPARMA - L’opera Luisa Miller di Giuseppe Verdi è sostanzialmente la storia, di un amore, di un ricatto, di un inganno e di un sacrificio; nulla più e nulla meno che la sintesi (almeno in parte) della vita dell’uomo. E come l’esistenza umana è una celebrazione dell’essere, la drammaturgia parmense del titolo verdiano è stata interpretata dal regista Lev Dodin (assistente alla regia Dmitrij Košmin) come una grande liturgia (alias celebrazione) della vita di una giovane ragazza di un ameno villaggio. Tanti elementi sono stati complici di questa idea a partire dalla suggestiva localizzazione dell’esecuzione.
Il dislocamento del Festival Verdi in luoghi diversi dal Teatro Regio di Parma è un’arma a doppio taglio e, se la scelta del Teatro Farnese degli scorsi anni aveva suscitato qualche perplessità per acustica e tutela del bene, il nuovo approdo (la Chiesa di San Francesco dal Prato) diventa un sito magico e suggestivo tale da provocare moti emozionali non appena si varca la porta del grande carcere. Ebbene sì, questo loco che è appellato come chiesa in realtà è stato fino alla fine degli anni ottanta del secolo scorso un carcere del quale si possono ancora vedere le celle, perfettamente conservate. Percorrendo i lunghi corridoi che portano al backstage sale dentro l’animo quel senso di oppressione, ma anche di stupore di potersi immergere in quella atmosfera che un giorno fu di segregazione e di morte ed oggi accoglie una platea di spettatori amanti o studiosi dell’opera lirica.
Ecco quindi che la vita di Luisa, la protagonista dell’opera, è senza dubbio specchio di una segregazione dettata dal potere e dalla cupidigia umana; una vita che celebra sin dall’inizio la sua sconfitta e che prelude alla morte mediante un grande rito sacrificale (le parole di Miller, il padre di Luisa, sono quasi profetiche).
La chiesa ben si presta a ciò ed ecco quindi che lo spazio destinato al palcoscenico costretto dall’abside, sarà “luogo eucaristico” dove viene officiata la vita della protagonista.

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Le scarne scenografie (poco c’è bisogno oltre quello che ereditiamo dall’architettura) sono proprio questi grandi tavoli che si compongono e si scompongono mano mano che il dramma scorre diventando essi stessi luogo di accoglienza, luogo d’amore, luogo di ricatto, luogo di inganno e luogo sacrificale. La grande scena finale inneggia proprio a questo sacrificio tradendo l’epilogo della reale drammaturgia scritta da Salvatore Cammarano dal dramma Kabale und Liebe di Fredrich Schiller. L’avvelenamento diventa un suicidio/omicidio collettivo e il grande brindisi finale inneggia proprio alla “celebrazione” della morte sotto l’egida di una grande liturgia religiosa.
Tutti assistono a questo momento sacrificale come fedeli e spettatori di una liturgia che celebra la vita ed il dramma di due famiglie accomunate da una sorte infame.
Un quadro davvero coinvolgente, impreziosito da un gioco di luci curato da Damir Ismaglov che ha replicato nelle due navate laterali gli struggenti colori (ciascun personaggio era caratterizzato da una tonalità) che imperlavano il palcoscenico trasportando quindi dentro la narrazione tutto il pubblico presente; eleganti e pertinenti anche i costumi di Aleksandr Borovskij (autore anche delle scene).
Sul versante musicale Riccardo Zanellato si erge a padre altero quale Il Conte di Walter senza trasmettere quel senso di atrocità e violenza, bensì lavorando molto sul gesto e sulla parola che diventa anch’essa strumento drammaturgico in un’interpretazione egregia e curata nelle dinamiche e nel fraseggio e che costituisce una cifra stilistica di questo grande artista.
Amadi Lagha è un Rodolfo alterno e discontinuo nella linea di canto; nella zona acuta la voce squilla ed esalta il rigo musicale, ma scendendo poco sotto il timbro perde spessore ed il canto diviene frammentato e incostante tra frasi avare di nitore e un’emissione più affine ad un cantante di musica leggera che non a quello di un interprete di melodramma. Il legato è una mera chimera e l’atteggiamento scenico quasi irriverente e con una scena finale nella quale l’approccio dell’artista sembrava più incline ad una partita a carte che non ad un sacrificio umano.
La Federica dell’emiliana Martina Belli emerge per un timbro brunito ed un’emissione costantemente a fuoco un cui intonazione e precisione musicale sono stati due grandi fiori all’occhiello.

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Anche il personaggio di Wurm interpretato dal basso Gabriele Sagona è stato scevro di inutili amenità e (come per il compare Conte di Walter) l’atteggiamento scenico ha trovato un ottimo contraltare in quello vocale risolvendo la parte con un canto sibillino e perfido, ma mai volgare e violento, dando quindi spazio a frasi ampie e ben cesellate di un nitore e dizione ineccepibili.
Franco Vassallo (Miller) si rivela un interprete di eccezione ed un artista da cui imparare sempre qualcosa sia da un punto di vista vocale che attoriale; la regia lo ha caratterizzato con un comportamento piuttosto mite (poco distante comunque dalla drammaturgia), che Vassallo completa con un canto sempre a servizio della parola scenica denso di pathos, amore, sofferenza e rassegnazione: stati d’animo che caratterizzano la vita del personaggio, umile ed onesto padre.
La protagonista trova in Francesca Dotto una brava interprete nonostante qualche limite imposto dalla sua vocalità; vi sono stati alcuni momenti, soprattutto nella zona più impervia del rigo musicale in cui la voce sembrava perdere il naturale smalto accusando momenti di fatica, mentre nella zona centrale si trovava perfettamente a proprio agio; a suo favore merita spezzare una lancia in quanto l’eccessiva presenza e sovraesposizione sceniche (anche quando non utile alla drammaturgia) hanno probabilmente reso ancor più pesante il fardello di un ruolo tutt’altro che semplice.
Note positive anche per brevi ruoli in cui si sono egregiamente distinti Vita Pilipenko (Laura) e Federico Veltri (Un contadino).
Il coro del Teatro Comunale di Bologna si è perfettamente inserito in questa liturgia guidato dal M° Alberto Malazzi.
La bacchetta del M° Roberto Abbado alla guida del complesso orchestrale del capoluogo emiliano ha dato colore, sapore e significato ad ogni nota cercando di non sacrificare mai il canto (talvolta inficiato da un’acustica non proprio eccelsa), bensì di assecondarlo diventandone un autorevole “servo”.

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Dal lato più “sinfonico” ha tradotto una delle più belle sinfonie verdiane in un momento veramente ispirato, degno di essere ricordato fra le esecuzioni udite più intense.
Pubblico fortemente entusiasta quello della prima del 28 settembre 2019 che non ha dato segni di timore per una dislocazione tra impalcature e cinghie che reggevano le altere colonne, anzi direi affascinato dal quella commistione che mischiava sacro e profano in un unicum davvero eccezionale.

Crediti fotografici: Roberto Ricci per il Festival Verdi – Teatro Regio di Parma
Nella miniatura in alto: il soprano Francesca Dotto (Luisa Miller)
Sotto in sequenza: Franco Vassallo (Miller), Francesca Dotto, Riccardo Zanellato (Conte di Walter) e Amadi Lagha (Rodolfo); Gabriele Sagona (Wurm) con Francesca Dotto; ancora la Dotto con Vassallo e Lagha
Al centro: la Dotto con Veta Pilipenko (Laura)
Sotto in sequenza: Martina Belli (Federica) con Lagha; Federico Veltri (Un contadino)
In fondo: una bella panoramica di Roberto Ricci su costumi e allestimento






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