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Una bella regia di Jacopo Spirei e la bacchetta di Carlo Ipata ridanno vita a un Melani dimenticato

L'empio punito veste heavy metal

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 13 Ottobre 2019

191013_Pi_00_LEmpioPunito_RaffaelePe_phImaginariumCreativeStudioPISA - Ri-conoscere, o conoscere? Replicare una formula collaudata oppure osare per fare cultura? Sfidare la via ignota o viaggiare per la strada maestra? Offrire al pubblico ciò che desidera o quello che non sa di desiderare? Queste sono alcune delle questioni che ho affrontato con il M° Stefano Vizioli (direttore artistico della stagione lirica del Teatro di Pisa) durante il cocktail al termine della “prima” de L’empio punito di Alessandro Melani, titolo inaugurale della stagione lirica 2019-2020. La datazione di questo titolo raro ci porta al 17 febbraio del 1669, all’interno della Scuola Romana, sempre influenzata dal comportamento del Papa di turno e per questo definita da taluni “intermittente”. In tale contesto, L’empio punito si qualifica dunque come “opera di passaggio”, sia per le modalità con cui nacque (venne commissionata da più mecenati, dei quali però non sappiamo granché, nemmeno attingendo agli Avvisi manoscritti conservati negli archivi romani), sia per la tipologia di esecuzione, affidata a interpreti di grande lignaggio e a Fernando Tacca, che curò la messinscena ispirandosi ai dipinti del pittore francese Pierre Paul Sevin.
Ma la vera peculiarità di questo componimento è che si tratta del primo dramma in musica basato sul testo teatrale L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra (1616), in cui Tirso de Molina introduce la figura letteraria di Don Giovanni. Dalla pièce i poeti romani Filippo Acciaiuoli e Giovanni Filippo Apolloni confezionano un testo che, pur presentando molti elementi comuni con i vari lavori settecenteschi a tema dongiovannesco, rappresenta anche un caso unico e per questo originale.

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La vicenda non è più ambientata fra Spagna e Italia, bensì nell’antica Macedonia alla corte del Re Atrace, nonostante alcune incongruenze come il naufragio iniziale (in un paese che non ha alcuno sbocco sul mare) o il duello a colpi di pistola.
La condanna del protagonista Acrimante non è dovuta tanto alla sua "empietà", quanto all’aver violato le stanze di Ipomene, sorella del re. Crimine per altro commesso dal suo servo Bibi, che aveva indossato l’abito del padrone per conquistare Delfa, nutrice della fanciulla. La sposa di Acrimante, Atamira, è una sorta di donna Elvira ante litteram: desiderosa di salvare l’infedele e amato consorte, prima chiede al sovrano di ucciderlo lei stessa e quindi lo salva, somministrandogli una pozione di finto veleno. Quando però tenta di fare sua Ipomene (personaggio che unisce in sé lo status di Donna Anna e il carattere di Zerlina), il "risorto" Acrimante deve vedersela con il di lei precettore, Tidemo, il quale, dopo essere stato ucciso in duello dal seduttore, assume la ben nota figura del convitato di pietra. Nell’epilogo Acrimante sprofonda negli inferi, mentre Tidemo sale al cielo... cantando da uno dei palchetti più alti del Teatro Verdi di Pisa.

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Gli effetti visivi certo non mancano in una serata dove l’ars registica si sbizzarrisce nella ricerca di colori, fluidità, scioltezza e brillantezza, riuscendo a tradurre tutti gli stati d’animo di Acrimante, sebbene talvolta mutino nello spazio di poche battute. Le figure stilizzate dei cavalli, del vascello, dei flutti e della stanza di Ipomene (raffigurata con un grande ventaglio) hanno consistenza bidimensionale e ci riportano alla tradizione seicentesca, con scene dipinte (curate, assieme ai costumi, da Mauro Tinti), che entrano ed escono alla stregua di meccanismi teatrali barocchi. Come afferma lo stesso regista Jacopo Spirei, si tratta di un viaggio surreale e fantasioso, che oscilla tra commedia, poesia e humor nero, dove il tutto è contemporaneizzato grazie a suggestioni che provengono dal cinema, dalla musica heavy metal (che si riflette sugli abiti e su qualche fondale demoniaco) e dalla comicità surreale dei Monty Python. Un ambiente estremamente ricco e raffinato, in cui il disegno luci di Fiammetta Baldiserri è riuscito a valorizzare i colori enfatizzandone la vividezza.
A nulla però sarebbe valso un lavoro estetico così ricercato (ma sempre lineare e ben decifrabile, nonostante un libretto lungo e dall’intreccio "avviluppato"), se non fosse stato rifinito con dovizia anche l’aspetto caratteriale dei personaggi. Invece le loro peculiarità e i loro sentimenti emergono con chiarezza nel più profondo significato, facendo comprendere quanto la regia sia stata curata con precisione, pazienza e profondo amore per il proprio lavoro.
I musici in buca si affidano totalmente alle mani di un massimo esperto di musica barocca qual è il M° Carlo Ipata, che si fa "servo della poesia" e conduce i cantanti verso un porto sicuro, fatto di gesti nitidi e dinamiche sempre appropriate, in cui, nonostante la schematicità dei numeri chiusi, non si smarrisce mai il senso della narrazione, proprio perché ogni scena si inanella alla successiva con estrema naturalezza.
L’ottimo cast è capitanato dal controtenore Raffaele Pe, che, nell’empio ruolo di Acrimante, è il vero mattatore della serata e della scena, piegando ogni anfratto del libretto a gesti e movenze sempre pertinenti. A questo si somma una voce dal timbro (dosato a regola d’arte) tanto affascinante quanto conturbante, le cui gradevoli variazioni in acuto lo confermano autentico fuoriclasse in questo repertorio. Snocciola magistralmente il recitativo della scena diciassettesima (ambientata nell’antro di Cocito) e intona con appassionata rassegnazione l’aria Pene, pianti e sospiri, per poi concludere in maniera sfacciatamente beffarda (la risata ne è un sigillo inconfondibile) la discesa agli inferi.
Atamira trova in Raffaella Milanesi una validissima interprete, capace di cogliere con dovizia ogni aspetto della donna innamorata, ma tradita e ben cosciente della propria sorte di femmina offesa. La vocalità nitida e ben a fuoco traduce gli stati d’animo con fedeltà e piena corrispondenza alle esigenze della partitura.
Non da meno Roberta Invernizzi, che rende alla perfezione la freschezza  e la passione giovanile di Ipomene grazie a un canto al servizio della parola scenica.
Bibi, il Leporello della situazione, è un efficace Giorgio Celenza, che, ad un certo punto, si trova a cantare nei panni del padrone, imbracato e sospeso in aria: una prova affrontata con sicurezza e grande musicalità.
Un mostro di bravura è senza dubbio Alberto Allegrezza (nella parte en travesti di Delfa), il cui istrionismo recitativo si intreccia con una voce tenorile squillante, gioiosa, beffarda e petulante, che anziché scivolare nel volgare e nel grottesco mantiene lo stile elegante che impone la tradizione barocca.
Questi i cinque eccellenti protagonisti, ma le sorprese non mancano anche per il resto del cast, selezionato attraverso il bando «Accademia barocca».
Lorenzo Barbieri è un perentorio e ieratico Atrace, mentre, nelle vesti di Cloridano, Federico Florio rivela un timbro gradevolmente chiaro, complice un atteggiamento quasi fanciullesco.
Piersilvio De Santis (Niceste, Demonio, Capitano della nave e Caronte) risolve le proprie parti con bravura e con un’egregia voce da basso.
Nel doppio ruolo di Auretta e Proserpina Benedetta Gaggioli emerge per struggente pathos.
Shaked Evron (Corimbo) e Carlos Negrin Lopez (Tidemo) completano il quadro con garbo e qualità vocali perfettibili.

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Un pubblico attento rende omaggio a tutto il palcoscenico e decreta per questo avvio di stagione una vittoria senza se e senza ma. (La recensione si riferisce alla recita di sabato 12 ottobre 2019).

Crediti fotografici: Imaginarium Creative Studio per il Teatro di Pisa
Nella miniatura in alto: il contratenore Raffaele Pe (
Acrimante)






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