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L'opera di Verdi inaugura il 2013 del Comunale di Bologna ma Bob Wilson non fa il miracolo

Sacrificato l'aspetto ctonio del Macbeth

servizio di Roberta Pedrotti

Pubblicato il 13 Febbraio 2013

130214_Bo_00_RobertWilson_phPressPhotoBOLOGNA - Chiuso il 2012 con Il trovatore, il Comunale di Bologna apre la stagione 2013 con Macbeth, sigillando così la celebrazione del bicentenario verdiano (onorato anche da Nabucco, il prossimo autunno), mentre l'antica vocazione wagneriana cittadina troverà compimento con il prossimo Fliegende Holländer e quindi nell'inaugurazione della stagione 2014, con la nuova produzione di Parsifal.
Siamo anche nel duecentocinquantesimo anniversario della fondazione del teatro e, in tal senso, non poteva darsi festeggiamento migliore di quello tributato dall'altissima partecipazione a tutte le recite. Da tempo non si vedeva il Comunale esaurito come per questo Macbeth, con il loggione virtualmente esaurito già alle sei e dieci del mattino (è vero che per questioni tecniche di regia i posti disponibili erano sensibilmente ridotti, ma le persone in coda anche per i – pochissimi – last minute rimasti erano tante che certamente la sala si sarebbe riempita anche a piena capienza): ottimo segno, che speriamo confermi un'inversione di tendenza per una città che aveva sofferto negli ultimi anni un triste calo d'affezione del pubblico.
Due e in un certo senso opposti i motivi principali d'attrazione dello spettacolo, che vedeva da una parte il ritorno in Italia di Jennifer Larmore (assente dalle nostre scene, se si escludono concerti come quello recente a Stresa, da quasi tre lustri), dall'altra il nuovo allestimento di Bob Wilson. L'interesse è stato dunque vivace sia da parte dei melomani, sia da parte degli amanti del teatro contemporaneo e dell'avanguardia artistica. Un'operazione perfetta dal punto di vista mediatico, anche se il risultato è stato interlocutorio sotto diversi punti di vista, non sorprendente ma pur sempre di stimolo alla riflessione.
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Non sorprende, anche se in un ruolo introdotto di recente nel suo repertorio e affatto diverso da quelli che l'hanno resa celebre, la Larmore, le cui qualità sono note, nel bene e nel male: non si è mai trattato di una voce di grande proiezione ed espansione, di natura più sopranile a dispetto delle tessiture contraltili frequentate anche a prezzo di una certa ingolatura e perdita di smalto timbrico. Belcantista della solida scuola americana ha però sempre saputo imprimere alle sue interpretazioni una decisa personalità, ora nei panni brillanti di Rosina e Isabella, ora in quelli melanconici di Cenerentola o in quelli regali di Elisabetta. Con queste premesse non ci stupiremo oggi, dopo ventisette anni di carriera, di qualche opacità o disuguaglianza in più, di qualche fiato un po' più corto di quanto potremmo sognare, notiamo piuttosto che la tessitura anfibia di Lady Macbeth è onorata con un'emissione più libera di quanto non accadesse con Arsace o Giulio Cesare e che restano intatti il carisma e l'autorità della primadonna, dell'artista completa ed esperta, padrona del palcoscenico anche in un contesto anticonvenzionale come questo, capace di destreggiarsi con mestiere disinvolto nelle asperità della parte. Imperfetta, certo, ma sempre artista e professionista di grande personalità.
Non sorprende Wilson, creatore con il suo staff di nove collaboratori di uno spettacolo tutto basato su luci, geometrie, gesti codificati a metà fra il teatro orientale e l'attore marionetta futurista. Uno spettacolo definito rigorosamente nei più minuti dettagli fino a varcare il confine con l'arte visiva non drammatica.
Sicuramente, è ben chiaro fin dalla Poetica di Aristotele, nessuno di noi va a teatro per scoprire se Amleto vendicherà il padre o se Fedra calunnierà Ippolito. Andiamo per assistere a questi fatti, e vedere come si dipanano ancora una volta di fronte ai nostri occhi. Il rito, dunque, potrà essere formale, cristallizzato in un codice estetico, o viceversa potrà essere teso a scavare nelle pieghe del mito e a svelarne particolari angolazioni, a interpretarlo. Può darsi un teatro di contenuti, d'interpretazione o un teatro prettamente estetico. Ogni strada è legittima, ma in rapporto, appunto, a come viene tracciata e come viene seguita. Quando Macduff uccide Macbeth l'impressione non è quella di una stilizzata sacra rappresentazione d'una storia eterna, ma di un tenore e un baritono che scimmiottano goffamente due attori kabuki. Quando Banco muove le braccia interrogando le streghe strappa un sorriso, e non è l'unico in un contesto di generale monotonia.
Wilson lavora abitualmente con la dilatazione e l'alterazione del tempo. In un'opera il tempo è dato dalla musica, anche al di là del valore del metronomo: è la pulsazione metrica a scandire le durate e intervenire in questo senso da parte del regista è molto pericoloso. Più che calcolare il rischio l'artista texano pare ignorarlo e procedere dritto per la sua strada, anche a costo di sacrificare il testo. Come tale, forse per un problema di traduzione delle note di regia, pare però che intenda solo quello verbale pronunciato da attori (cantanti o parlanti che siano), la trama, e non, invece, come nella semantica moderna, quello stesso complesso di elementi significativi che compongono quello stesso opus globale indicato come ideale. Per produrre il suo opus quale unica performance teatral-visuale, Wilson si serve di Macbeth come traccia, non serve Macbeth come testo (in senso lato).

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L'impressione netta è quella della declinazione visiva di un tema fra immagini più o meno felici, ma sostanzialmente fredde e prive d'una vera drammaturgia, piuttosto fonte presto di un'assuefazione che scivola spesso nella noia. La sottrazione arriva all'estremo di sacrificare non solo l'aspetto ctonio, sanguinario e serpentino dell'opera, ma anche quello fantastico e visionario, cristallizzato in un'astrazione estrema che anestetizza il senso del mistero, la percezione del sovrannaturale delegata al formalismo di luci e forme geometriche. La suggestione non sembra interessare nell'ambito di un dramma, ma è ricercata come fine a se stessa, mancando quasi di proposito i grandi appuntamenti con la sfera del meraviglioso, come l'apparizione dello spettro di Banco (una sedia coperta da un lenzuolo e lasciata penzolare dal soffitto), i vaticini delle streghe (queste immobili in cappe con globi luminosi in mano, le apparizioni semplicemente didascaliche, ricalcate sull'iconografia tradizionale), l'avanzare della foresta di Birnam (di fronte ad alcuni tronchi stilizzati in bianco e nero il coro schierato).
A fronte di questa lettura scenica Roberto Abbado conferma una caratteristica che diviene di volta in volta merito o tallone d'Achille, ovvero la sua capacità di aderire completamente ad un progetto teatrale e di far vivere la sua direzione in perfetta simbiosi con la regia. Per questo hanno destato entusiasmo Simon Boccanegra, La clemenza di Tito e Mosé in Egitto affidate alla sua bacchetta e alla regia di Graham Vick, per questo in altri casi l'esito ha lasciato decisamente perplessi. Per rispondere alla ritualità geometrica della scena, celebrazione dell'immaginario visivo del suo artefice, dilata i tempi e, soprattutto, annacqua i colori, riduce i contrasti dinamici, tende a una pesantezza non favorevole a tutte le voci. Una lettura più vitale e chiaroscurata sarebbe parsa certo in contrasto con il progetto di Wilson, ma avrebbe certamente meglio servito il capolavoro verdiano nel suo scandagliare le più cupe passioni umane, la sete di sangue e potere da cui nessuno è immune, se anche Macduff medita, nel piangere i figli, di sterminare quelli del nemico, se mai ne avesse avuti. L'orchestra e il coro in ottima forma – peccato che l'impianto scenico favorisse la proiezione del suono verso la platea disperdendolo invece salendo verso le balconate – avrebbero potuto sortire ben altri risultati e di certo una direzione più variegata e teatrale avrebbe giovato a un protagonista piuttosto anonimo come Dario Solari, che non brilla per fantasia e incisività d'interprete, né per infallibile istinto musicale. Anche Roberto De Biasio, che pure troviamo notevolmente maturato quanto a proiezione e spessore vocale, potrebbe ricercare una maggior rifinitura con uno stile più attento e sorvegliato, una maggior cura dei dettagli. Il migliore fra gli uomini, e in assoluto il cantante più corretto, preciso, affidabile, è parso invece Riccardo Zanellato: il suo Banco non apparterrà alla stirpe dei grandi bassi di cavata ampia e scura, ma ha peso specifico più che sufficiente, emissione pulita, buon gusto e convinzione espressiva.
Squillante ma musicalmente piuttosto arbitrario il Malcolm di Gabriele Mangione, a posto Marianna Vinci come Dama (ma i concertati vorrebbero meglio un soprano e non un mezzo quale lei è) e tutte le parti di fianco, con il Medico di Alessandro Svab, il sicario di Sandro Pucci, l'araldo di Luca Visani, le apparizioni di Michele Castagnaro (anche domestico di Macbeth), Valentina Pucci e Annalisa Taffetani.
Come si è detto la sala è affollata da un pubblico eterogeneo che si divide fra entusiasmi al calor bianco, applausi più timidi e altri decisamente a sproposito, come quello che parte improvvido nel finale primo sulla pausa che precede “O gran Dio, che ne' cuori penetri”, come se l'atto fosse concluso. Chissà quale sarà il futuro rapporto con l'opera di tutti i curiosi o appassionati d'arte contemporanea ma non melomani che abbiamo riconosciuto in sala: i commenti sulla musica erano i più disparati e speriamo che prevalga la curiosità per la scoperta sul pregiudizio verso un'arte antica che molti ancora credono fossilizzata in polverose tradizioni sovvertite solo da qualche coraggioso outsider. Non è così, chi l'opera la frequenta lo sa bene, anzi, spesso chi crede di rivoluzionare dall'esterno è in realtà l'interprete meno interessante e innovatore.

Crediti fotografici: Press Photo e Rocco Casaluci per il Teatro Comunale di Bologna
Nella miniatura in alto: il regista Robert Wilson
In basso: immagini dal Macbeth verdiano come lo vede il regista






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