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Il lavoro giovanile di Georges Bizet convince e commuove i fiorentini dell'Opera

Pescatori di perle. Davvero

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 03 Marzo 2016

160303_Fi_00_Pecheurs_phPietroPaoliniTerraProjectContrastoFIRENZE - Uscendo da Teatro dopo aver assistito per due giorni di seguito alla rappresentazione di Les Pêcheurs de Perles di George Bizet è inevitabile che certe melodie, certi ritornelli, rimangano impressi nella mente e si traducano in un flebile mugolio tra le labbra con nella mente il ricordo delle scene e dei momenti caratteristici di quanto visto; e proprio anche in questo momento, scrivendo questa cronaca fiorentina, sono avvolto dai “leitmotiv” struggenti che avvolgono, suscitando meravigliose sensazioni: lo definirei quasi un amore incondizionato per la “Déesse” dove le parole dei librettisti Eugéne Cormon e Michel Carré ben si fondono con le languide melodie di Bizet in un connubio di grazia, eleganza e stile. Spesso associamo la maturità artistica di Bizet solo con l’arrivo di Carmen relegando a opere “da studentello" quelle precedenti. In effetti guardando la programmazione dei teatri un po’ in tutto il mondo, la sintesi cui giungiamo potrebbe essere proprio quella; ecco che - invece - grazie a questo componimento si può scagliare una lancia a favore di opere cosiddette più giovanili del compositore parigino dove sicuramente le avventure dei pescatori dell’isola di Ceylon ne sono un lampante esempio perché in essa troviamo una grande levatura artistica con le sue particolarità, unicità e specialità, ricordando che già in alcuni passaggi, l’orecchio dell’attento ascoltatore non può non trovare in embrione alcuni temi che saranno sviluppati nel successivo capolavoro della Carmen.
A discapito di tutta questa tesi, nella vita postuma alla prima rappresentazione del 30 settembre del 1863, troviamo un feroce attacco dei critici (ad eccezione del non più giovane Berlioz), che la definirono una rumorosa imitazione di Wagner, di Verdi e di altri compositori di minor valore; inoltre molti “scempi” furono compiuti sullo spartito dopo la morte di Bizet. Il finale dell'opera, infatti, parve ai contemporanei non abbastanza grandioso e non sufficientemente drammatico; si provvide a modificarlo, aggiungendovi un brutto terzetto e condannando di volta in volta il povero Zurga a patire tra le fiamme o ad essere pugnalato dai sacerdoti, quando l'autore aveva preferito un finale più aperto e “sospeso”, con Zurga lasciato in vita a contemplare, malinconico, la felicità dei due amanti in fuga; non da meno si sono succedute ulteriori incursioni barbare sui duetti del primo e del terzo atto.
La versione fiorentina di quest'anno, ripresa da una produzione datata 2007 con origine in terra triestina, ha lasciato l’originale finale del compositore, ma ha operato dei tagli nei duetti sunnominati: evidente soprattutto il taglio del duetto del primo atto, così ci troviamo di fronte ad una situazione monca dove il consolidarsi del rapporto Zurga-Nadir non è esplicitato, ma resta votato alla libera interpretazione dello spettatore. Giova qui ricordare un breve saggio di Gianni Ruffin, il quale scrisse in occasione di una rappresentazione alla Fenice di Venezia: L’originalità della pièce non risiede tanto nel fornire un quadro d’ambiente, quanto nel fatto che, a ben vedere, entro una struttura drammaturgica tipica della tradizione operistica occidentale, la trama insinua di soppiatto un tema di sorprendente novità: quello d’un’affettività fra Nadir e Zurga che lascia sospesa (ma pone) la domanda circa la loro latente omosessualità. Una volta accettata come effettiva la presenza di questo tema (e dopo l’ascolto d’un brano quale «L’orage s’est calmé» l’ipotesi sembra assai poco peregrina), l’ambientazione esotica diventa allora in un certo qual modo necessaria: se non altro nella misura in cui essa garantisce l’esorcismo d’un contenuto represso, proiettandolo in un confortevole ‘altrove’ che, secondo i canoni di quel tempo, l‘avanzato occidente riteneva inferiore.”
Il merito di questa regia, curata da Fabio Sparvoli, è quello comunque di aver fatto girare per tutta l’Italia questo titolo poco rappresentato, ma ho notato comunque, oltre ai limiti dei tagli, delle incongruenze librettistiche che talvolta hanno stravolto la vicenda; una per tutte, nell’atto terzo, alla fine del primo quadro, la consegna della collana nelle mani di Zurga chiamandolo “amico”, quando fino ad un momento prima era stato maledetto dalla stessa Léila; soluzione che mal si addice alla conclusione di un quadro di grande drammaticità; il libretto infatti prevede che tale monile sia consegnato nelle mani di un giovane pescatore e che Zurga se ne impadronisca dopo l’uscita di scena dell’amata da cui non è corrisposto. Le scenografie curate da Giorgio Ricchelli non guastavano all’occhio, risultando comunque prive di un elemento importante come il mare che era solo stilizzato sul fondale con una statica tela blu, mentre le dune erano rappresentate da un pavimento piuttosto insidioso per cantanti e ballerini che più volte hanno rischiato il capitombolo.
Vivaci e ricchi i costumi di Alessandra Torella, mentre per quel che riguarda le coreografie realizzate per la Compagnia I Dea e curate da Annarita Pasculli, ho potuto notare spesso movimenti ed espressioni mimiche piuttosto inconsulte e poco appropriate all’ambiente, alla musica e alle situazioni; nel terzo atto dopo la dichiarazione di morte dei due amanti, il corpo di ballo si è scatenato in una danza tribale (che faceva ricordare il ballo della Pizzica, famoso in terra salentina) che poco si addiceva ad un popolo di pescatori; con l’aggravante di essere elemento di disturbo e non di contorno di una pagina musicale densa di grande charme. Questi gli elementi scenico-visivi comuni alle due recite cui ho assistito; di seguito il racconto di entrambe le rappresentazioni.

Recita del 27 febbraio 2016 - Nell’unico personaggio femminile, debuttando il ruolo di Léïla, il soprano Laura Giordano; per presentarvela riporto una frase che ha scritto agli amici sulla sua pagina personale: Due recite sono troppo poche per un debutto, per potere assaporare realmente e far crescere un nuovo personaggio, ma almeno sei nata, cara Leila. Spero di ritrovarti presto”.

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Questa tenera e languente frase mi suggerisce una risposta immediata: “Beh ne basta anche solo una per farsi valere e mettere in evidenza le proprie capacità; ed è stato proprio così: la sua interpretazione ha ammaliato il pubblico che le ha tributato anche in corso d’opera calorose ovazioni; le pagine della giovane sacerdotessa sono dense di ingenuità, languore, passione, ira e in ogni situazione la Giordano ha saputo mettere in voce i vari stati d’animo con le sue doti di grande interprete; il suo canto correva sul filo delle labbra con grande semplicità ed offriva sempre un suono omogeneo e cristallino per evidenziare la spensieratezza, facendosi più struggente e passionale nelle pagine del secondo atto fino a diventare più incisivo e perentorio nel duetto del terzo atto; della cantante palermitana si apprezzano gli acuti sempre eseguiti con grande precisione e facile agilità, conferendo ai momenti estatici come “Ó Dieu Brahma” un fascino esotico e la sensazione che la voce volteggiasse sopra gli astanti quasi ad avvolgerli in un abbraccio virtuale; ottima la tecnica vocale che le ha permesso di affrontare sia gli acuti melismi che le note più centrali con grande centratura e messa a fuoco.

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Il tenore Jesús León non è stato da meno nel fornirci un Nadir di grande spessore;  ottimo legato, bellissime dinamiche di suono lo hanno portato al varco di "Je crois entendre encore” dove ha saputo conferire ad ogni nota il giusto accento, fino a trascinare l’ascoltatore incantato, in un finale di sicura presa; un Do acuto (non scritto, ma eseguito perfettamente) pianissimo “ppp” che correva per la platea come un rombo di tuono.
Il baritono Stefano Antonucci nel ruolo di Zurga, dopo una partenza in sordina con un’emissione piuttosto appannata e poco sonora, si è riscattato nel terzo atto con “L’orage s’est calmé” riuscendo a conferire tutta la drammaticità e tutto il turbamento interiore che pervade l’animo del personaggio, prima di trovarsi di fronte alla donna e tramutare il suo stato da innamorato a vendicativo; anche qui la voce ha trovato una sua collocazione ben precisa, seppur debole e poco a fuoco nel registro più grave e a tratti poco proiettata in quello più acuto, molto spesso sollecitato dalla scrittura bizetiana.
Il Nourabad di Nicolas Testé è stato ampiamente ammirato e apprezzato in tutta la sua performance con un timbro nitido, scuro, ma non eccessivamente tetro, tale da apportare al personaggio un sicuro spessore e una propria indipendenza.
Il coro preparato come sempre dal M° Lorenzo Fratini, anch’esso personaggio in quest’opera e non solo mero contorno, ha saputo affrontare la partitura sulla scena ed in interno, con grande dinamismo e fierezza, conferendo sempre il giusto colore e la giusta verve in tutti gli interventi, dotati ognuno di carattere e colori propri, amalgamandosi in maniera ottimale con i solisti e con l’orchestra.
La mano di Ryan McAdams dal podio è stata ottima guida per tutto il “popolo” del palcoscenico; tempi giusti, impeti ben misurati, ma sempre opportuni, grande dinamismo, sono riusciti a conferire a questo capolavoro musicale una freschezza ed un sapore esotico, da potersi unire alle più grandi interpretazioni di riferimento; lodevole anche per la giusta intesa con i solisti ed il coro che hanno sempre saputo far tesoro dei preziosi cenni della bacchetta. Alla fine non sono mancati consensi unanimi per tutto il cast dove la Giordano e riuscita a strappare l’ovazione più sentita.

Recita del 28 febbraio 2016 - Il pomeriggio piovoso ed uggioso non ha impedito che il Teatro fosse discretamente affollato per l’ultima recita di questo titolo. Il cast sostanzialmente diverso rispetto a quello della sera precedente ha visto come interprete femminile di Léïla il soprano Ekaterina Sadovnikova; timbro gradevole, ma poco elastico ed agile per riuscire a conferire al personaggio il giusto spessore; molto spesso i tempi agili della sera precedente hanno dovuto lasciare il passo a movimenti più misurati e non sono mancati momenti dove sono stati carenti sia l’intonazione che un giusto raccordo con la bacchetta del concertatore; anche nel registro più grave, ho notato poco corpo e poco timbro che non ha permesso una costante emissione sonora, nonostante l’accuratezza del direttore a non calcare troppo la mano, specialmente nel drammatico duetto del terzo atto.

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Il ruolo di Nadir è stato appannaggio del tenore Jesus Garcia, anch’esso dotato di un gradevole timbro è risultato meno convincente del suo predecessore; sicuramente voce più piccola che spesso subiva il sorpasso dei colleghi, del coro e dell’orchestra; anche le voci “più piccole” - e ne abbiamo moltissimi esempi - possono arrivare all’orecchio dello spettatore in maniera chiara e nitida; mancava qui proprio questa chiarezza e questa nitidezza al punto da inficiare percettibilmente la proiezione del suono stesso; questo si è palesato proprio nell’aria cardine del ruolo, dove le note più impervie sono state eseguite con uno scarno falsetto privo di spessore non facendo mancare, sul finale, una palese incrinatura che lo ha costretto a smorzare molto frettolosamente; meglio dal punto di vista scenico dove l’esperienza assimilata in questo ruolo è stata maestra per affrontare il personaggio da un punto di vista della recitazione, in maniera credibile.
Trionfatore vocale e scenico del pomeriggio musicale è risultato il baritono Luca Grassi (Zurga); anch’esso veterano del ruolo, si è distinto per eleganza, fascino e stile nel canto e nell’ars scenica. Ogni sua entrata è stata evidenziata con una potenza vocale notevole; ottimi gli acuti, pieni e rotondi, sicuro nelle zone più gravi, senza mai cedere in appoggio ed intonazione; grandissima eleganza di fraseggio anche nel concitato duetto del terzo atto, dove sono scaturite fuori tutta la personalità e tutta la veemenza necessarie a conferire la piena drammaticità al momento; non da meno è stata l’aria immediatamente precedente “L’orage s’est calme” nella quale l’infelicità e la disperazione sono elementi che possono essere ben trasmessi solo con il giusto piglio vocale: ed il nostro interprete non ha mancato di farceli percepire in maniera determinata.

 

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Anche in questa recita domenicale Coro ed Orchestra dell’Opera di Firenze erano in grande forma ed il pubblico plaudente ha salutato tutti gli artisti con caloroso entusiasmo.

Crediti fotografici: Simone Donati e Pietro Paolini Terra Project Contrasto per il Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il direttore Ryan McAdams
 






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