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Il Falstaff con la regia di Robert Carsen incanta pių per la messinscena che per la concertazione

L'occasione perduta d'una serata perfetta

servizio di Roberta Pedrotti

Pubblicato il 02 Febbraio 2013

130131_Mi_00_Falstaff_DanielHardingMILANO - Al Wagner di Lohengrin succede il Verdi di Falstaff - e poi saranno Nabucco e Olandese e Oberto e Macbeth e Ring a intrecciarsi in stretta alternanza sul palco del Piermarini - ancora una volta con un grande regista, Robert Carsen, e una bacchetta, quella di Daniel Harding, che suscita interesse. Ne sortisce un allestimento, bello, divertente, godibile, ma non memorabile, proprio perché se la commedia su palco si dipana a meraviglia, quella musica che è commedia in ogni suo più minuto accento fatica a prender vita.
Dopo la rivelazione vera propria di un dittico verista concertato, sempre alla Scala, con somma intelligenza e zampillare d'idee stimolanti, Harding conferma di non avere in Giuseppe Verdi il suo autore d'elezione e spreca un'occasione. L'orchestra manca di leggerezza e di nitore, si stende come un tappeto polveroso nel quale i colori son diventati opachi e i disegni confusi, quando Falstaff, anche a volerne dare una lettura più carnosa e sensuale, è un perfetto meccanismo ritmico in movimento perpetuo, una macchina teatrale fatta di atmosfere, incisi, preziosismi e ironie. Né il trillo universale del negro grillo né la magia del notturno di Fenton e di tutta la scena della Quercia di Herne si riconoscevano nella bacchetta di Harding, che sembrava mille miglia lontana da questa partitura: un passo falso insomma, purtroppo.
Così anche visivamente le belle immagini che Carsen distribuisce generosamente nel terzo atto con la maestria estetica che gli è propria non s'inseriscono appieno nella giusta atmosfera. E sì che l'apertura dell'angolo della stalla su un cielo stellato è un incanto, come gli sbuffi di fumo che s'illuminano di fuochi fatui all'annuncio delle fate. Giusto alla fine l'ispirazione cede un po' alla maniera (l'esperto carseniano avrà riconosciuto qua e là in quest'ultimo atto alcuni topoi visivi del maestro canadese) con una fuga che assomiglia molto al Sabba romantico del suo celebrato Mefistofele, ma con l'espediente risaputo delle luci accese in sala e dei solisti che indicano i “tutti gabbati” nel pubblico.

130131_Mi_01_Falstaff_RiccardoBottaAmbrogioMaestri_phRudyAmisano 130131_Mi_02_Falstaff_CarmenGiannattasioDanielaBarcellonaIrinaLonguLauraPolverelli_phRudyAmisano

Peccati veniali, perché il livello di Carsen resta altissimo e, soprattutto, dimostra nei primi due atti di non essere solo un grandissimo interprete della psiche umana nella tragedia e un genio elegantissimo della spazialità teatrale. Dimostra di essere anche un regista brillante che sa entrare nei ritmi della commedia e dipanarne i più segreti meccanismi.
Immersa nell'Inghilterra degli anni '50 la vicenda di Falstaff può sviluppare con chiarezza tutti i sottintesi di commedia umana e sociale senza appesantirsi, anzi scorrendo fra caratterizzazioni impagabili, com'è quella della Quickly di Daniela Barcellona. Che sia un'attrice superba l'avevamo già constatato più e più volte, così come che Carsen sappia definire nella recitazione dettagli impalpabili ma percepibili, un tic, una camminata: da quest'incontro sortisce un personaggio che non è buffo, non ha nulla di caricaturale, ma pure non smette mai di trasmettere buonumore. Un'allegra zitella, estroversa e un po' goffa, con un repertorio d'improbabili cappellini come solo una zitella (appunto!) inglese delle middle-class potrebbe avere il coraggio d'indossare. I suoi duetti con Falstaff sono uno spettacolo nello spettacolo, gustosissimi, anche grazie alla complicità di un Ambrogio Maestri perfettamente calato nei panni di sir John senza cadere nella trappola, lui che ne è oggi forse l'interprete più assiduo, di ripetersi, reinventandosi piuttosto distinto e ironico nobiluomo spiantato, sì, ma sempre fedele a se stesso e contrapposto alla nuova borghesia rampante e materialista rappresentata da Ford e soprattutto dal suo alter ego parvenu, il petroliere texano Fontana.
Come la Barcellona non si adagia sui compiacimenti contraltili di tradizione, ma gioca da musicista e belcantista in punta di fioretto, conscia della forza intrinseca del suo personaggio alieno da tratti grotteschi, così Maestri coglie la perfetta misura, anche vocale, di questo elegante sir, seduttore, gaglioffo, maestro d'espedienti per vivere al di sopra dei suoi mezzi, ma mai senza aplomb e dignità. Carsen costruisce un universo di rapporti sociali, personaggi sempre centratissimi, approfonditi e in perfetta relazione, anche quando l'azione si fa complessa e si popola di controscene, come nel delizioso quadro del bistrot chic dove le comari si riuniscono per il gossip. Falstaff e Quickly sono due capolavori, ma gli altri non fanno eccezione, anche se non s'impongono sul piano strettamente musicale. Sicuramente colpisce la Nannetta di Irina Lungu, un'adolescente ben determinata che sfoga le pene d'amore affondando il cucchiaino in un barattolo di yogurt preso dal frigo e canta benissimo, piegando dolcemente una voce carnosa e perfin brunita che non avrebbe sfigurato nemmeno se prestata ad Alice. S'impone anche Carlo Bosi, un Cajus eccellente come sempre, dalla voce squillante e perfettamente emessa, così come ben figura il Bardolfo di Riccardo Botta, ben accompagnato dal Pistola corretto di Alessandro Guerzoni. Meno bene la vocalità disordinata di Carmen Giannattasio (cui spettano l'onere e l'onore di tutte le recite dopo la defezione di Barbara Frittoli), decisamente fuori fuoco proprio là dove il soprano dovrebbe emergere, come in “Ma il viso tuo su te risplenderà come una stella sull'immensità” o nel racconto della leggenda del cacciatore nero.

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Laura Polverelli, invece, è sempre una presenza di classe, ma se sulla scena il personaggio è servito a meraviglia, musicalmente Meg stenta a emergere. Così apprezziamo molto l'idea di Carsen di fare di Fenton un cameriere, giustificando le ire classiste di Ford, tuttavia per quanto questa vocalità più lirica meglio si addica ai suoi mezzi rispetto ad altri ruoli affrontati, Francesco Demuro continua a suscitare perplessità per una non perfetta quadratura tecnica e musicale. Chi delude però è il Ford di Fabio Maria Capitanucci, colto in un momento di evidente cattiva forma, con difficoltà a sostenere il suono nel legato e soprattutto nella zona acuta e di passaggio. Speriamo che questa prova problematica sia segno solo di un affaticamento momentaneo e che, senza escludere una rifinitura tecnica, possa riportare i sui mezzi al massimo delle loro potenzialità.
Il coro preparato da Bruno Casoni si comporta bene e i figuranti sono bravissimi. Meritano una lode speciale i costumi di Brigitte Reiffenstuel, un'invenzione continua e gustosissima, un divertissement irresistibile sul gusto britannico, ma anche le scene di Paul Steinberg e le luci firmate dallo stesso Carsen con Peter Van Praet sono d'altissimo livello e non ci si stancherebbe mai di scoprire i dettagli preziosi celati nell'allestimento. E si esce da un teatro affollatissimo con il sorriso sulla bocca per la splendida commedia ricca di dettagli memorabili, anche se un ché d'irrisolto, soprattutto dovuto alla bacchetta e ad alcune voci, lascia il retrogusto amaro dell'occasione perduta per una serata perfetta.

Crediti fotografici: Rudy Amisano per il Teatro alla Scala di Milano
Nella miniatura in alto: il direttore Daniel Harding
Al centro: Riccardo Botta e Ambrogio Maestri; le allegre comari del Falstaff
In basso: finale del Falstaff scaligero con la regia di Robert Carsen






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