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Per la settecentesima rappresentazione ''guiness'' l'Arena ricorre a un'illuminotecnica evolutissima |
Collaudata ma quasi nuova Aida |
servizio di Simone Tomei |
Pubblicato il 23 Giugno 2019 |
VERONA - Settecento volte Aida… ecco con quale record il titolo più rappresentato nell’anfiteatro scaligero debutta quest’anno nella stagione Arena di Verona Opera Festival 2019. Una particolarità ed un vanto per il melodramma in Italia: le centenarie recite si sono avvicendate in numerosi allestimenti del capolavoro verdiano, ma sono felice che per il compleanno delle settecento candeline si possa ammirare la messinscena di Gianfranco de Bosio. Ritengo infatti che sia quella più rappresentativa, che riesca cioè maggiormente a valorizzare il dramma di Antonio Ghislanzoni ed il luogo fisico che lo accoglie; le immense gradinate sul retro palco non sono offuscate dalle variopinte colonne che mano a mano si spostano sulle tavole del palcoscenico per esigenze drammaturgiche, anzi diventando elemento che valorizza la grande scena del “Trionfo” e il commovente finale: tutto è sontuosamente ed elegantemente sobrio e tutto diventa magicamente divino quanto è accompagnato dalle note verdiane. In questa occasione sono stati rivisti alcuni aspetti della regia e delle luci e come riporta il comunicato stampa: «… Per la ripresa del 2019, l’impianto scenografico è stato parzialmente rinnovato, mantenendosi fedele ai disegni originali ma allo stesso tempo rendendo più agevoli gli imponenti cambi scena, con cambiamenti nell’Atto terzo (sulle rive del Nilo) e nel finale dell’Atto primo (presso il tempio di Vulcano) frutto dell’inesausta ricerca di de Bosio. Un altro elemento di novità riguarda l’utilizzo di nuovi apparecchi illuminotecnici: moving light da 1700w, che permettono di intensificare in maniera significativa la luminosità. L’aumentata potenza ed il diverso posizionamento degli apparecchi sulla cavea rendono possibili nuovi angoli di incidenza dei fasci luminosi, riuscirà a restituire con ancora maggiore nitidezza il disegno cromatico originale del Fagiuoli reinterpretato da de Bosio e realizzato insieme al light designer areniano Paolo Mazzon. Tali interventi sono stati possibili grazie al contributo economico versato da numerose imprese alberghiere sensibilizzate dalla Cooperativa Albergatori Veronesi presieduta da Enrico Perbellini, utilizzando la leva dell’Art Bonus. È un segno concreto attraverso il quale le imprese cittadine si stringono attorno alla Fondazione Arena per tutelarne il patrimonio, fra tradizione e innovazione e testimoniare l’impegno della città nel valorizzarne un’eccellenza culturale conosciuta in tutto il mondo, ricollegandosi anche alla prima Aida areniana del 1913, che fu finanziata proprio da coraggiosi e illuminati imprenditori veronesi…» Devo dire che l’impatto scenico è sicuramente più fluido ed il lungo intervallo che separava il terzo atto dal quarto si è notevolmente accorciato. Sono state eliminate le rive del Nilo, luogo in cui si svolge la terza parte del dramma, e tutta la scena è posta di fronte al tempio di Iside dove Amneris sta pregando con il sacerdote Ramfis; una scelta forse un pochino incongruente in relazione alla drammaturgia, ma possiamo assurgerla a peccato veniale nell’immensità e nella bellezza che comunque portiamo nel cuore dopo aver visto le variopinte colonne di de Bosio.
  
Una nota di demerito deve essere però ascritta alla Fondazione Arena ancorché abbia affidato la gestione degli ingressi in appalto ad una ditta esterna; in questa serata che ha visto il tutto esaurito nell’anfiteatro veronese alle 19.45 mi metto in coda per poter effettuare i controlli sicurezza cui siamo abituati oramai da qualche anno, ma qualcosa probabilmente non funziona. Sono “solamente” le 21.25 (e quindi dopo oltre un’ora e mezza, ossia cento minuti) quando riesco a sedermi in platea; la mia entrata in Teatro è accolta da un pubblico già furente ed infastidito in quanto ha visto posticiparsi l’inizio dello spettacolo di ben quarantacinque minuti. Il tutto, tra l’altro, senza essere stato mai reso partecipe dell’”inghippo” che ha formato queste lente ed interminabili code all’ingresso mettendo in luce una poco edificante immagine per la Fondazione che è sembrata essersi completamente disinteressata delle esigenze dei suoi “clienti”. La voce dello speaker continuava ad annunciare che lo spettacolo sarebbe iniziato da lì a pochi minuti, ma questi minuti sono sembrati interminabili agli occhi e alle orecchie dei più. Solo alle 21.45 con l’affievolimento delle luci e l’accensione dell’occhio di bue sul M° Francesco Ivan Ciampa, la magia ha potuto aver luogo e le prime flebili note del preludio hanno dato il via alla settecentesima rappresentazione di Aida. Ed è proprio su questo preludio che la mano sicura e schietta del direttore avellinese dà il suo imprimatur alla partitura verdiana; di essa ha saputo cogliere le intenzioni e le molteplici sfaccettature riuscendo a valorizzare le peculiarità di ciascuno strumento senza mai perdere il filo conduttore; ecco allora che l’introduzione dell’aria del soprano del terzo atto diventa un tutt’uno con la voce dell’interprete, come l’accompagnamento dei violini nel duetto finale rappresenta quel letto soave di morte su cui si adagiano i due innamorati; il trionfo diventa la massima espressione corale in cui veramente tutti partecipano con quello spirito guerriero e baldanzoso ad esaltare appieno ogni armonia che Verdi ha voluto riporre in un momento sì maestoso: qui la musica è stata energica e sanguigna riuscendo a provocare quell’emozione del cuore cui altri grandi maestri ci avevano condotto. Il Coro della Fondazione Arena guidato come sempre dal M° Vito Lombardi è stato degno delle più grandi rappresentazioni e, nonostante l’esiguo numero di prove ed un discreto numero di artisti “nuovi”, ha dimostrato compattezza musicale e unitarietà di suono conferendo ad ogni pagina eseguita lo stile inconfondibile che solo in questo emiciclo possiamo sentire. E adesso veniamo al cast. Seguo diligentemente l’ordine del libretto che vede come primo interprete il basso Romano Dal Zovo nei panni del Re; ormai anche lui ci ha abituato a prestazioni di lusso ed anche questa sera non ha mancato il bersaglio in un’interpretazione di lusso con grande partecipazione vocale ricca di armonici, potenza, ma anche di eleganza e stile. Serata da grande spolvero anche quella di Violeta Urmana che ci ha regalato un’Amneris da manuale; sin dalle prime note il colore della voce è sembrato subito ben timbrato e l’uniformità della gamma sonora ha saputo essere l’ottimo viatico per un canto sempre ben presente, variegato nei colori e soprattutto incisivo nella grande pagina del quarto atto in cui è parsa essere quasi “rapita” dalla musica chiudendo la grande scena dell’anatema con una grinta da grande leonessa. L’Aida del soprano Anna Pirozzi regala sempre qualche sorpresa e la sua interpretazione è stata un crescendo di emozioni; mano a mano che il dramma si evolveva nella strada che tutti conosciamo, vi è stata una sempre maggiore presa di coscienza del mutare degli eventi ed ogni stato d’animo della protagonista si è ben tradotto nel canto dove ha prevalso maggiormente la grinta all’arrendevolezza. Murat Karahan è un tenore che canta bene e non possiamo dire assolutamente il contrario; il Radames che ci ha proposto manca a mio avviso di partecipazione emotiva ed il canto che restituisce alla platea è “solo canto”, ma non interpretazione.

Gli acuti di Karahan sono luminosi, il suono è fermo e l’intonazione pure; difetta inoltre molto in pronuncia e soprattutto, ribadisco, è assente qualsivoglia sentimento: una sorta di casa con una meravigliosa facciata, ma con l’interno ancora da finire… «Caro Murat, finisci questo interno ed il tuo Radames brillerà davvero e riuscirà anche ad emozionare; per ora ti possiamo solo ammirare, ma non ancora godere.» Egregiamente altero anche l’Amonasro del baritono mongolo Amartushin Enkhbat; questo artista ad ogni ascolto regala sempre l’impressione di crescita e di evoluzione vocali ed il suo canto ancora di più trova conforto in un fraseggio ben curato ed un’ottima dizione. Note più dolenti per il Ramfis di Dmitry Beloseskskiy; canto frastagliato, dizione poco accorta, intonazione non proprio idilliaca ed il tutto condito da un fraseggio periclitante.

A completamento del cast un corretto Carlo Bosi nei panni di Un Messaggero ed un’elegantissima Yao Bo Hui nei panni della Sacerdotessa con una vocalità nitida e cristallina, ma dotata del giusto spessore per le suadenti frasi ad essa affidate. Sulle coreografie di Susanna Egri hanno danzato il corpo di ballo ed i primi ballerini: Petra Conti, Mick Zeni, e Alessandro Macarlo in un collaudato gioco di passi e prese coreutiche, illuminati anche loro dalla belle luci del già citato Paolo Mazzon. Tutto l’emiciclo era pullulante di persone ed ogni nota di Giuseppe Verdi ha librato egregiamente nell’aria per la settecentesima volta; alla fine l’imprimatur degli astanti è stato unanime e non è nemmeno mancata la “benedizione” di Gianfranco de Bosio che alla fine è salito sul palcoscenico assieme a tutti gli artisti a salutare il pubblico osannante.
Crediti fotografici: Foto Ennevi per la Fondazione Arena di Verona Nella miniatura in alto: il soprano Anna Pirozzi (Aida) Sotto in sequenza: Violeta Urmana (Amneris); Amartushin Enkhbat (Amonasro); ancora la Pirozzi con Murat Karahan (Radames) Al centro e in fondo: due panoramiche di Foto Ennevi sull'allestimento curato da Gianfranco de Bosio illuminato da Paolo Mazzon
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