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L'opera di Giuseppe Saverio Mercadante tra contestazione e applausi alle Innsbruck Festwochen

Didone abbandonata e... ritrovata

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 18 Agosto 2018

180818_00_Innsbruck_Didone_ViktorijaMiskunaite_phRupertLarlINNSBRUCK - Le mie trasferte estive mi hanno visto spettatore la sera del 14 agosto 2018 anche all’ Innsbrucker Festwochen Der Alten Music in occasione di una recita della Didone abbandonata di Giuseppe Saverio Mercadante, dramma per musica su libretto di Pietro Metastasio. Il mito di Didone prende le mosse dall’epica virgiliana nel libro IV dell’Eneide, per passare poi attraverso Ovidio, Boccaccio, Marlowe, fino ad arrivare ad Ungaretti e Brodskij: in questo lungo percorso storico il melodramma ne beneficia proprio per l’opera metastasiana e si contano ben 112 versioni in musica del libretto; libretto che risale nella sua prima versione al 1724 e che da allora in poi ha subito varie modifiche tra le quali la più importante risale alla metà del diciottesimo secolo per una rappresentazione al teatro del Buon Retiro di Madrid del 1752 ed è per questo detta “versione spagnola” voluta dal castrato Carlo Broschi (alias Farinelli) per il compleanno del Re Ferdinando VI.
Il primo approccio di Mercadante al testo avviene per una rappresentazione al Teatro Regio di Torino del 1823 su un libretto di un poeta revisore anonimo; questa revisione anonima fu ancora oggetto di modifiche da parte di Andrea Leone Tottola per la prima rappresentazione napoletana del 1825; a questi due approcci ne seguì anche uno milanese nel 1827 che seppur ancora modificato sembrò aggiungere nulla rispetto ai precedenti, ma per un quadro più completo della mito e del suo epilogo dall’evento milanese, riporto con piacere un estratto di una lettura a cura di Arianna Frattali: "… la trama del libretto fu ovviamente semplificata. Nella nuova suddivisione bipartita, pur mutando sostanzialmente in alcuni punti cruciali, il primo atto dell’opera manteneva generalmente integra la struttura originaria, mentre i grossi tagli riguardavano di solito gli ultimi due atti. Anche se gran parte della versificazione originaria restava immutata, l’equilibrio metastasiano fu tuttavia spezzato dall’inserimento di più versi in nuovi brani di differente struttura. Questo accadde alla celebre aria solistica che Didone cantava in chiusura della scena quinta nel primo atto, Son regina e son amante, trasformata in duetto con l’aggiunta di una nuova sezione riservata a Iarba, qui interpretato da Nicola Tacchinardi. Veniva meno così il concetto di aria intesa come sfogo lirico di un protagonista unico e la struttura metastasiana cedeva il posto al duetto o al terzetto, oppure direttamente all’aria con coro, quest’ultimo considerato un veicolo eccellente per la pittura dell’affetto. Il brano a più voci appariva così collocato in due momenti importanti del dramma: come introduzione e finale d’atto; rari infatti erano i brani a più voci che non fossero duetti o terzetti, mentre piuttosto articolate apparivano le costruzioni formali delle introduzioni e dei finali, della Didone, in particolare, dove il finale primo, di considerevole lunghezza (circa cinque pagine del libretto), metteva in campo, oltre a tutti i personaggi, anche il coro suddiviso in più sezioni.» Seppure sottoposta alle modifiche di cui sopra, la Didone musicale gettò dunque la sua ombra lunga sull’Ottocento per ordine di motivazioni non solo di carattere politico: essa aveva costituito infatti un’eccezione nel panorama coevo del genere e conteneva già in nuce quella mimesi delle passioni che avrebbe portato all’empatia, sentimento che il pubblico ottocentesco voleva provare nei confronti delle vicende rappresentate e cantate sul palcoscenico. Alcuni studiosi, tra cui Jacques Joly (1983), hanno evidenziato come i protagonisti dei drammi di Metastasio dubitino sovente di sé e del mondo, combattendo aspramente per ridefinire la propria identità ontologica. Il poeta stesso aveva infatti dichiarato di volere rappresentare in mutevoli situazioni drammatiche il conflitto fra «passione e raziocinio», come «universali principii delle operazioni umane.»

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Così, nelle opere metastasiane, il lieto fine si raggiunge spesso tramite una necessaria rinuncia, che rende la componente razionalistica risolutiva fortemente predominante; nella Didone, tuttavia, tale componente è del tutto secondaria e il libretto delinea la cronaca di un dissidio senza soluzione, quello fra dovere e passione. Come si capisce, dunque, la Didone metastasiana getta idealmente un ponte artistico e culturale fra ciò che era e ciò che sarebbe stato del genere operistico: l’impossibilità di dominare la follia amorosa conduceva infatti alla morte la protagonista e alla disfatta il suo regno.
Personaggio tragico per eccellenza, Didone ha attraversato il diciottesimo secolo incarnandone di volta in volta ansie e insicurezze, per divenire, tra Sette e Ottocento, specchio fedele di una società il cui malessere era evidenziato dallo sforzo di reggere un sistema ormai alla deriva e di cui la rivoluzione francese, il regno giacobino e i moti carbonari avevano già evidenziato le falle. Ma il paradigma melodrammatico ha subito ulteriori trasformazioni: anche se le intonazioni di Didone non hanno superato la prima metà del diciannovesimo secolo, tale progressivo declinare della fortuna di questo dramma riguardò principalmente il mondo dell’opera, ma non la profonda trasformazione del mito didoneo che il drammaturgo romano ha operato nella sua «estetica della ricezione» (Borsetto, 1990: 262) ri-negoziata continuamente a ridosso della scena. Innanzitutto, è stata rilevata dalla critica l’influenza della poetica metastasiana sulla trattatistica ottocentesca del dramma in musica, come pure il suo influsso sul melodramma verdiano relativo ai libretti di Francesco Maria Piave e Antonio Ghislanzoni. In secondo luogo, dobbiamo considerare il definitivo sdoganamento del protagonismo femminile che quest’opera, di fatto, inaugurò e consolidò nel tempo; la regina cartaginese fu infatti più volte interpretata dalle prime grandi dive dei palcoscenici settecenteschi in tutta Europa, sino a diventare, recitata, cavallo di battaglia di molte grandi attrici dell’Ottocento, seppure spogliata della sua componente musicale. In tale mutato contesto, che vedeva le donne ormai protagoniste della scena, non ci fu più posto per i virtuosi castrati, come Marchesi, ormai ritenuti innaturali nel loro registro vocale acuto, così svincolato dalla mimesi delle passioni, in una distribuzione naturale dei ruoli che promuovesse il coinvolgimento emotivo dello spettatore all’interno di una dimensione più naturalistica del teatro . Era il tramonto di quel sistema della “meraviglia” sui cui si fondava la spettacolarità barocca, come del «moltiplicarsi di piccole sorprese» prediletto dalla mentalità estetica del rococò; il pubblico sei-settecentesco aveva apprezzato, infatti, non tanto l’originalità, quanto la «misura di una differenza o scarto dalla norma», come fondamento della percezione alla base di ogni illusionismo sonoro e visivo. All’interno di tale sistema, il cantore evirato, capace di «eccezionali prestazioni con un minimo sforzo di fiato» aveva rivestito un ruolo di primo piano per quasi più un secolo, ma la sua stella era ormai destinata a tramontare.”

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Un mondo quello di Didone che, nell’opera di Giuseppe Saverio Mercadante, rivive con quegli schemi musicali ancora legati ai primi anni dell’Ottocento, ma che rivelano un compositore, seppur poco conosciuto, di fine eleganza e di sapiente coscienza e conoscenza degli strumenti e di come esaltarli appieno nell’esecuzione musicale; ecco allora che rifulgono le roboanti note del corno tanto caro anche al Cigno di Pesaro, come altresì l’intreccio dei legni e degli archi risuona con soave maestria alternando a momenti più meditativi, roboanti enfasi sonore di cui la Sinfonia iniziale è un magnifico esempio; per approfondire cito un pensiero tratto dal libretto di sala a cura di Paolo Cascio: “… Potremmo inquadrare questa Didone come un mix tra passato, presente e futuro. Del passato riscontriamo tracce di grandezza tipiche del linguaggio dell’opera europea della seconda metà del Settecento. Sotto questo punto di vista, la Didone è un melodramma di vicende sentimentali, con pretese di magniloquenza ed enfaticità. Quest'opera di Mercadante è legata al passato anche per via dell’argomento trattato, preso da un dramma di Metastasio, e dall’utilizzo di un ruolo en-travesti, per il personaggio di Enea. Del presente, riferito a quel 1823 quando Mercadante compose Didone, troviamo lo spirito di Rossini, soprattutto nelle forme codificate dal grande pesarese che Mercadante ricalca e usa come guida. Questa Didone ci parla anche del futuro, intravediamo infatti i primi esperimenti che porteranno Mercadante a uno snellimento delle forme, a una asciuttezza delle linee melodiche in favore di un declamato più scultoreo, e ai primi tentativi di costruire ampi ponti drammaturgici che, negli anni a venire, ingloberanno più scene possibili. Tutto questo e molto altro è la Didone abbandonata di Mercadante, una preziosa partitura ora tolta dall’oblio, che aiuta a contestualizzare meglio l'opera italiana del primo ottocento e che parla di quelle istanze innovative che partendo da Rossini avrebbero portato al fiorire del Romanticismo in Italia….”
Ecco che partendo dal versante musicale non possiamo non rendere merito al M° Alessandro De Marchi che ha accarezzato questa partitura con un rispetto ed una dedizione tali da elargire una corroborante esecuzione di cui l’Academia Monti Regalis è stata la grande e concreta longa mano del musicista riuscendo a dosare le sonorità senza eccessi, trovando ottima simbiosi con il palcoscenico, non mancando al contempo di inventiva e originalità; concludo la parte prettamente musicale con un altra chicca di Paolo Casci: “… L’opera è articolata in una Sinfonia iniziale e quattordici numeri… l’organico prevede archi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, timpani e una banda notata nell’autografo solo con un rigo per la ritmica. A proposito dell’organico: eccezionalmente si conservano parecchie carte relative a quelle stagioni che riportano l’esatta conformazione dell’orchestra dell’epoca. Presumibilmente l’orchestra della Didone abbandonata era dunque formata da ventidue violini, tra Primi e Secondi, quattro viole, tre violoncelli, sette contrabbassi, due oboi, due flauti, due clarinetti, tre fagotti, quattro corni, due trombe, due tromboni, un “timbaliere” e due maestri al cembalo. A fianco di questi strumentisti, registrati nel libro paga, si potevano aggiungere gli strumentisti della Piccola Banda e quelli della Banda del Reggimento Savoja. I coristi ammontavano invece a quindici (Archivio Storico Comunale, Torino. Carte sciolte, n. 6193 dell’Inventario degli Atti (sezione Teatri ed altri luoghi di pubblico spettacolo)…”
Equilibrato ma non omogeneo per quello che riguarda la prestazione vocale il cast impegnato del capolavoro ottocentesco comunque ben amalgamato e coeso con l’eccellente Coro Maschile Maghini di Torino diretto dal M° Claudio Chiavazza.
Viktorija Miskunaité è stata una Didone molto infuocata e sensuale pur non nascondendo anche un parte più fanciullesca ed innocente nella prima parte; la voce è brunita e si rivela omogenea in tutta la sua gamma sonora; la parte impervia e lunga mette in luce tenacia e grinta anche se probabilmente un repertorio più “lirico” potrebbe far emergere ancor meglio la sua generosa vocalità.
Di gradissimo pregio la prova di Katrin Wundsam che affronta la parte en travesti di Enea con un piglio energico e sicuro dimostrando padronanza scenica e vocale sia nella zona acuta quanto in quella grave; prova ne sono le sua arie solistiche che risaltano in pieno il carattere del ruolo e del personaggio tradotte egregiamente da un approccio grintoso.
Delude non poco la prova di Carlo Vincenzo Allemano nei panni di Jarba; in origine tale musica fu composta per Nicola Tacchinardi, ma la vocalità di Allemano è mille miglia distante da quella del grande interprete ottocentesco. Un canto piuttosto incostante e tendenze ad ispessire il suono hanno caratterizzato prevalentemente la sua interpretazione mostrando lacune soprattuto nella zona più impervia dove la vocalità perdeva brillantezza e luminosità e talvolta con qualche “buco” musicale che ne rendeva incostante l’esecuzione; non male il piglio interpretativo, ma insufficiente per rendere onore al ruolo.
La Selene di Emilie Renard ha trovato ampi spazi di merito per precisione ed eleganza vocale; ottimo l’Osmida del bass-baritono Pietro Di Bianco che, seppur in una parte piuttosto falciata dai tagli, ha saputo mettere in luce una vocalità salda e piena in cui la parola scenica viene servita elegantemente con una bella dizione; la grande pagina del secondo atto ha messo in luce un timbro luminoso e schietto che non fa fatica a navigare in tutta la sua estensione con pregevole uniformità.
Completava il cast l’Araspe di Diego Godoy che colpisce per un timbro di pregevole natura, ma che ancora sconta un po’ di inesperienza; un artista da tenere - comunque - sott’occhio.

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Note dolenti, anzi dolentissime per la regia di Jurgen Flimm; per parlare di regia è necessario innanzitutto avere un’idea di cosa si voglia dire… partiamo pure anche dal presupposto che si voglia comunicare qualcosa di diverso da ciò che il libretto dice, qualcosa che va oltre, qualcosa che va addirittura in direzione contraria: senza dubbio è più accettabile che vedere il nulla che non ha senso narrativo e quantomeno drammaturgico; mi sarei accontentato del didascalico, ma un frigorifero, una pedana rotante, una betoniera, una poltrona, un divano ed una canoa sono elementi troppo eterogenei e distanti da qualsivoglia idea per poterli associare in un discorso unitario, tanto che l’abbandono visivo è stato l’unico atto dovuto per rispettare e godere una partitura riscoperta che avrebbe meritato altro trattamento e che non ha considerato per nulla alcuno dei personaggi omettendo di costruire su essi un evanescente significato… anzi ne ha distrutto ogni peculiarità; coadiuvavano la parte visiva: la scenografa di Magdalena Gut, la costumista Kristina Bell, la coreografa Tiziana Colombo e le luci di Irene Selka. Platea e palchi esauriti che, dopo le sonore contestazioni della “prima”, hanno comunque reso omaggio agli interpreti con vigoroso calore.

180818_99_Innsbruck_Didone_PietroDiBiancoHo incontrato alla fine dell’esenzione musicale il bass-baritono Pietro Di Bianco con il quale ho scambiato alcune battute che condivido con voi.
Un bel ruolo debuttato, impressioni e suggestioni?
Sono molto contento di aver debuttato nel festival dei "big" a Innsbruck dopo aver già partecipato nel 2015 nell'opera dei giovani con l'Armide di G.B. Lully; è stata una bellissima esperienza lavorare con il maestro De Marchi, una lezione di belcanto durata cinque settimane: Osmida è un ruolo che pur non essendo tra i principali (Didone, Jarba ed Enea) dà grandi soddisfazioni anche se molti recitativi del mio personaggio sono stati omessi per esigenze di regia.

Sotto l’aspetto vocale cosa ti ha affascinato maggiormente?
La grande aria posta a metà del secondo atto è una prova di bravura per una voce bass-baritone perché la tessitura è veramente ampia e richiede quindi la padronanza di note gravi e note acute, a volte anche molto acute (dal La bemolle grave ai tanti Sol sopra il quinto rigo).

E sotto quello interpretativo e drammaturgico?
Sul piano interpretativo il maestro De Marchi è stato molto attento alle esigenze di ciascuno di noi artisti perché ognuno ha una propria specifica musicalità; sotto il profilo drammaturgico, è stato fatto un lavoro di cooperazione tra il regista e artista e la psicologia di Osmida è stata costruita giorno per giorno durante le quattro settimane di prove: é stato un lavoro di ricerca sperimentare poiché, essendo un'opera mai eseguita in tempi moderni, non ha nessuna tradizione da cui attingere.

Crediti fotografici: Innsbrucker Festwochen / Rupert Larl
Nella miniatura in alto: Viktorija Miskunait
é nel ruolo eponimo
Sotto: ancora
Viktorija Miskunait
é in una scena della Didone abbandonata
Al centro in sequenza: immagini d'insieme nelle belle riprese fotografiche di Rupert Larl
Nella miniatura in fondo: il bass-baritono Pietro Di Bianco






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