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Il regista Victor García Sierra gioca con forme e colori vestendo l'opera buffa di Donizetti |
Elisir come un quadro di Botero |
servizio di Rossana Poletti |
Pubblicato il 19 Marzo 2019 |
TRIESTE - Teatro Verdi. Il regista venezuelano Victor García Sierra ha deciso di ambientare L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti, in scena al Verdi di Trieste, in un mondo pittorico circense attinto da Botero, che dipinse una serie di quadri dedicata proprio al circo nel 2008. Le scene e i costumi appaiono conformi a quelle che sono le peculiarità dell’artista, che ama le forme insolite, dilatate e i colori distesi, mai sfumati con i contorni precisi e delineati. E allora innamorati, truffatori, bellimbusti, creduloni, ragazze capricciose, personaggi senza tempo e senza luogo, vivono su una scena in cui troneggia un tendone giallo del circo che ruota, mostrando nel suo interno due vere acrobate, i trampolieri altissimi, ci sono poi i carrozzoni, il villaggio e i suoi abitanti festosi, i bambini, una mongolfiera, il cui pallone è a forma di gattone, realizzato da Botero come scultura a Barcellona, che alla fine si porterà via Dulcamara, quando ormai la storia d’amore si è risolta e lui non teme più di essere scoperto nel suo imbroglio del finto elisir. L’operazione è riuscitissima, propone una rappresentazione divertente, colorata, piena di trovate fantasiose che aggiungono qualità ad un’opera che già di per sé è perfetta. Botero, colombiano, è figlio della sua terra, il Sudamerica, i cui artisti raccontano da sempre mondi reali soffusi di magia, dai “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez al “Gabriella, garofano e cannella” di Jorge Amado, a cui appartiene evidentemente il regista Sierra, capace di ricostruire questa magia anche sul palco dell’opera. Magia, allegria e malinconia in scena si rincorrono in un mix che gli artisti riescono a proporre senza cadute e senza che la festosità generale si tramuti in grottesco. Nemorino è un giovane innamorato, molto timido e ingenuo, credulone canta il suo amore non corrisposto con il dolore ma anche con la speranza che la sua gioventù gli consente.
Il tenore Francesco Castoro, che lo impersona, è atteso alla prova del fuoco con l’aria più importante e sicuramente la più nota dell’intera composizione, “Una furtiva lacrima”. La esegue vestito da Pierrot con il fagotto in mano, lo strumento che dà le sottolineature al canto di Nemorino. Impeccabile fino alla fine, intellegibile nelle parole, con un bel timbro limpido suscita gli applausi scroscianti del pubblico, soprattutto per la sua emozionante interpretazione. Anche l’Adina del soprano Claudia Pavone propone un’ottima esecuzione del suo personaggio, ragazza civettuola e lievemente perfida che sfuma poi nella giovane pentita e amorosa. Raggiunge, senza mostrare alcuna difficoltà, acuti di notevole intensità. E’ vigoroso nella voce e nell’interpretazione del personaggio il Belcore di Leon Kim, gradasso ma non troppo, si propone con molta disinvoltura e con una dicitura di buona qualità. Bruno de Simone propone un Dulcamara furbo, istrionesco: “Udite, udite, o rustici, attenti non fiatate” e ancora “Benefattor degli uomini, riparator dei mali, in pochi giorni io sgombero, io spazzo gli spedali”; alle donne poi “O voi matrone rigide, ringiovanir bramate? Le vostre rughe incomode con esso cancellate”: è tutta qua la contemporaneità del suo messaggio che attraverso l’incantamento e il raggiro propone illusori rimedi per tutti i mali, anche all’assenza d’amore. Un elisir per tutte le stagioni e per tutti i bisogni.
Divertentissima la scena del duetto in cui Nemorino scopre che Dulcamara può risolvere il suo problema amoroso “Ardir! Ha forse il cielo mandato espressamente per mio bene quest’uom miracoloso nel villaggio” a cui Dulcamara risponde “La mia saccoccia è di Pandora il vaso”. Imbonirà Adina, essendo consapevole che la giovane è realmente innamorata di Nemorino, fino alla partenza finale nel tripudio generale della folla che ha veramente creduto agli effetti sorprendenti del suo elisir, con il coro che canta a gran voce “Viva il grande Dulcamara, la Fenice dei dottori: con salute, con tesori possa presto a noi tornar”. Una particolare menzione va proprio al Coro del Teatro Verdi, diretto da Francesca Tosi, che la fa da padrone sul palco dell’ Elisir d’amore, ha un’ottima presenza musicale a cui si aggiunge un riuscito lavoro registico che impone un’efficace “movimentazione delle masse”. L’Orchestra del Verdi imprime il giusto brio e vivacità all’opera di Donizetti, diretta dal maestro Simon Krečič che, unica nota dissonante, forse nell’emozione della prima esecuzione, soprattutto nella prima parte, sembra trattenere l’andamento brillante della composizione. L’opera è considerata il capolavoro di Donizetti, composta su libretto di quel grande poeta che fu Felice Romani, con cui il compositore non andò mai molto d’accordo. Realizzata in pochissimo tempo, come spesso accadde per tante opere, arrivò a conclusione non con pochi dissidi tra i due artisti e con una certa presunzione del librettista, che riteneva importante al pari della musica il suo lavoro letterario. Subì l’inserimento della “furtiva lacrima”, aria composta in precedenza e di altre arie melodiche, che sono la forza del successo di Donizetti, che però poco conciliavano con Le philtre di Eugene Scribe adattato da Romani. La prima esecuzione ebbe luogo al Teatro della Cannobiana di Milano nel maggio del 1832. In scena al Teatro Verdi di Trieste fino al 23 marzo prossimo.
Crediti fotografici: Fabio Parenzan per il Teatro Verdi di Trieste Nella miniatura in alto: il tenore Francesco Castoro (Nemorino) Al centro in sequenza: Claudia Pavone (Adina) con Leon Kim (Belcore); ancora Francesco Castoro con Bruno de Simone (Dulcamara) Sotto: immagini di scena dell'allestimento curato dal regista Victor García Sierra
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