Pubblicato il 12 Aprile 2023
Il celebre oratorio di Händel entusiasma il pubblico del Teatro Bellini di Catania
Il Messiah trionfa sempre servizio di Eduardo Andaluz

20230412_Ct_00_Messiah_MarcusBosh_phGiacomoOrlandoCATANIA - La stagione concertistica del Teatro Massimo “V. Bellini” ha offerto, per la Settimana Santa ,un capolavoro assoluto della musica sacra, il Messiah di Georg Friedrich Händel, oratorio in tre parti per Soli, Coro e Orchestra, con i solisti Pietro Adaini tenore, Elisa Verzier soprano, Ilaria Ribezzi mezzosoprano, Cristian Senn baritono; sul podio a dirigere orchestra e coro del Teatro Massimo Bellini il direttore Marcus Bosh.
La concertazione di Bosh si è contraddistinta per una direzione decisamente  chiara e intuitiva  e per il  gusto stilistico molto accurato; il suo gesto verso l'orchestra era eloquente e precisa, senza mai trascurare l’importanza della parte vocale, sempre sostenuta e mai coperta; ne è risultato un insieme compatto e  ricco di sfumature.
Molto attenti alle sue direttive i quattro solisti. Il  tenore Pietro Adaini, dalla voce morbida e luminosa, ha saputo trarre il meglio dalla sua parte rendendo ben precisa la sua coloratura.
La stessa tecnica di  virtuosismo viene usata dal compositore per la voce di basso , interpretata dal baritono Christian Senn,  sempre capace di superare tutti gli ostacoli grazie ad una voce ben gestita, sicura e di bel colore.
La parte, che va dai larghetti fino ai difficili prestissimi, non mette in difficoltà la voce, brunita e duttile allo stesso tempo, del mezzosoprano Ilaria Ribezzi, che non teme alcuno scoglio insito nella scrittura, mostrando doti di bella espressività.

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Infine, molto elegante, precisa e di buon fraseggio il soprano Elisa Verzier, che affronta prontamente la coloratura nella sua aria “Rejoice greatly, O daughter of Zion”.
Eccellente la resa del coro, che ha saputo alternare con ottimo effetto momenti in pianissimo a sezioni in fortissimo,dimostrando l’attenzione per le  intenzioni del compositore. Il culmine è stato raggiunto con Il brano più celebre, il famosissimo "Hallelujah!", al quale emozionante impatto il caloroso pubblico non è riuscito a sottrarsi, facendo partire un lungo applauso a scena aperta.
La riproposizione come bis dello stesso "Hallelujah!" ha fatto sì che la serata terminasse con grande entusiasmo da parte di tutti.
(la recensione si riferisce al concerto di venerdì 7 aprile 2023)

Crediti fotografici: Giacomo Orlando per il Teatro Massimo "V. Bellini" di Catania
Nella miniatura in alto: il direttore Marcus Bosh
Al centro, in sequenza, i quattro solisti
Sotto: panoramica sul concerto





Pubblicato il 21 Giugno 2019
Ultimo titolo della corrente stagione lirica, il capolavoro di Leoncavallo incontra il consenso del pubblico
Bell'allestimento di Pagliacci servizio di Salvatore Aiello

190620_Pa_00_Pagliacci_DanielOren.JPGPALERMO - A conclusione della prima parte della Stagione 2019 del Massimo di Palermo è andato in scena il capolavoro manifesto del verismo italiano: Pagliacci di Ruggero Leoncavallo che con Cavalleria rusticana  costituisce il notissimo dittico amato dai melomani; questa volta Pagliacci da solo con il ritorno, dopo il 2007, della regia di Lorenzo Mariani, ex direttore artistico della Fondazione.
L’opera, ispirata da un fatto autenticamente accaduto, porta all’attenzione la nuda sofferenza della plebe con tutta una ritualità arcaica che la tiene fissa ab aeterno nella sua concezione  senza la possibilità di mutamenti sociali. Sint lacrimae rerum  per cui vano è il ribellarsi e i sentimenti si tramutano in grido allucinante cui partecipa la coralità dei vinti.
Ad attenderci sul palcoscenico c’era una grande cavea di un circo equestre ad intelaiare la tragica storia di Canio e Nedda, un amore malato, un femminicidio ispirato dal gobbo Tonio (Jago della situazione).
Sugli spalti della gradinata nei momenti più tragici si  accampavano attonite figure, presenze incombenti, testimoni muti che assistevano alla consumata esistenza dei personaggi inchiodati da un fato imperscrutabile che trovavano nella morte la soluzione alla loro solitudine.
In questo senso si è mosso Lorenzo Mariani la  cui regia risultava lodevole per il rispetto del soggetto e della musica e che si giovava dei colorati costumi di Maurizio Balò e delle appropriate luci di Roberto Venturi affidando ad un cielo intenso e attonito testimone del delitto. La vicenda aggiornata agli anni sessanta del secolo scorso trovava giusto respiro con belle invenzioni, vivacizzate dall’apporto di saltimbanchi, giocolieri, ballerine che ci sarebbero piaciuti di più senza il passo del twist.
Alla piacevolezza dello spettacolo contribuiva il cast nel complesso di  prim’ordine.
Martin Muehle ha dato di Canio un’interpretazione intensa per espressività, accurata partecipazione mettendo a disposizione tutte le risorse di tenore  lirico sapendo regalare momenti di sentita drammaticità; sconvolgenti il suo “Vesti la giubba” e “ No, pagliaccio non son” doloroso finale resi con focosi accenti  e delirante pienezza vocale.
Al pari il Tonio, da antologia, di Amartuvshin Enkhbat, viscido, diabolico in possesso di una vocalità prodigiosa e ricca di armonici, di bel colore e cospicuo volume a servizio di un accorto gioco psicologico.
Valeria Sepe (Nedda) ha affrontato il personaggio con buone risorse tecniche ed interpretative oltre ad un appropriata tenuta scenica.
Elia Fabbian era Silvio. In evidenza il Beppe di Matteo Mezzaro. Completavano il cast, Francesco Polizzi e Paolo Cutolo (Contadini).

190620_Pa_01_Pagliacci_facebook_phRosellinaGarbo.JPG

Daniel Oren dopo la breve commemorazione di Franco Zeffirelli a cui è stata dedicata la rappresentazione, ha guidato l’orchestra con scioltezza e dinamiche strumentali pronte a cogliere i  momenti e gli appuntamenti  più attesi della partitura concedendo spazi lirici calibrati e lanciandosi in spessori turgidi nei momenti più drammatici con continuo dialogo tra orchestra e palcoscenico; in rilievo l’Intermezzo che ha riscosso il plauso di un pubblico soggiogato dalla bellezza della musica.
Valido l’apporto del coro diretto da Piero Monti e il coro di voci bianche diretto da Salvatore Punturo.
Caloroso e convinto il consenso del numeroso pubblico.

Crediti fotografici: Rosellina Garbo per il Teatro Massimo di Palermo
Nella miniatura in alto: il direttore Daniel Oren
Sotto: il tenore Martin Muehle (Canio)





Pubblicato il 06 Aprile 2019
Il Teatro Lirico di Cagliari ha mandato in scena uno spettacolo da visione tendenzialmente cinematografica
Tosca ottima dai due cast servizio di Simone Tomei

190406_Ca_00_Tosca_PierFrancescoMaestriniCAGLIARI - “Tosca, mi fai dimenticare Iddio” recita il barone Scarpia alla fine del primo atto. Vorrei fare mia questa frase, mutuandola alla luce del sentimento che mi accompagna : “Tosca, mi fai rimembrare Cagliari.” Vari impegni mi hanno fatto tardare nel resoconto della mia ultima trasferta in terra sarda, ma adesso, nel calmo pomeriggio di un tiepido giorno primaverile, posso finalmente lasciarmi trasportare da una soave nostalgia e rivivere le ore trascorse presso il Teatro Lirico di Cagliari in compagnia di Tosca, terzo capolavoro consecutivo di Giacomo Puccini dopo Manon Lescaut e La bohème. Ho avuto il piacere e l’onore di poter ascoltare entrambe le compagnie di canto – delle quali parlerò più avanti distintamente – , ma per poter apprezzare al meglio un dipinto è necessario premurarsi di collocarlo in una cornice adatta, che in questa occasione ci viene fornita dal regista Pier Francesco Maestrini, coadiuvato da Juan Guillermo Nova (scene e proiezioni), Marco Nateri (costumi) e Pascal Mérat (luci).
Dal punto di vista scenografico, si passa dal reale all’immaginario in un batter di ciglia. Sulle inquietanti note della triade iniziale, che annunciano il tema di Scarpia, le immagini in bianco e nero che illustrano l’antefatto (la fuga di Angelotti dalle carceri romane) si trasformano immediatamente in quelle raffiguranti l’interno di Sant’Andrea della Valle (dove l’ex console  si rifugia), disegnando in primo piano alcuni elementi scenici fittizi in supporto a quelli fisici. Allo stesso modo, dopo il gesto di Cavaradossi teso a scoprire il dipinto della Maddalena, ecco che la Marchesa Attavanti diventa una figura olografica, la cui presenza evanescente vuole dimostrare da un lato la totale estraneità della nobildonna alla vicenda rappresentata e dall’altro la sua importanza drammaturgica nell’escalation degli eventi. Il primo atto abbraccia in toto la realtà solo alla fine, quando, insieme al Te Deum, cessa il “fragore” delle immagini e tutto si concretizza nell’autentica consistenza di oggetti e persone. Se il secondo atto è più vivido e terreno nel sottolineare la materialità laida e carnale del barone, nel terzo si tornano a mescolare verità e fantasia, ricreando la prigione in cui il pittore aspetta la sentenza con grandi arcate, proiettate sul retino in proscenio in modo da ottenere una verosimiglianza elegante e plausibile.
La visione registica è tendenzialmente cinematografica, tesa a valorizzare le figure degli interpreti tramite l’impianto visivo e a delineare con dovizia di particolari gli aspetti più sadici e truculenti della trama. Come afferma Maestrini, Tosca è quasi un film dell’orrore e per questo occorre sottolinearne la violenza, psicologia e fisica, utilizzando anche gli abiti per rimarcare con nitidezza i numerosi contrasti insiti nell’opera. Citando il costumista Nateri, “… con i vestiti si racconta un dramma ottocentesco in cui la cupezza dell’aristocrazia romana e del clero fanno da contraltare alla limpidezza dei sentimenti dei due amanti.” Il cappotto nero di Scarpia simboleggia tale cupezza in contrasto con i colori accesi indossati della protagonista (a tal proposito, l’abito rosso del secondo atto è un concentrato di bellezza e fascino) e quelli candidi del pittore. La musica immortale di Puccini fa il resto.

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Il M° Donato Renzetti guida con garbo, gusto e matura musicalità le due compagnie di canto, assecondando le voci con un incedere votato a sottolineare i respiri più drammatici e, talvolta, concitato nel dipanare gli intrecci, per donare la necessaria fluidità agli eventi che si susseguono nell’arco di poche ore. L’orchestra del Teatro Lirico di Cagliari risponde a dovere e ne segue il gesto, cesellando ogni nota in un prezioso monile da porgere agli interpreti e al pubblico, che pare quasi calamitato dall’ebbrezza che trasuda da queste pagine. Il Te Deum è l’apoteosi di una solennità che non trasborda in chiasso bensì in religioso e sontuoso cerimoniale, in cui la blasfemia di Scarpia lo porta ad impossessarsi dell’ostensorio, spodestando di fatto il prelato dal suo ufficio solenne. La musica sottolinea con veemenza questo momento e i tre accordi sembrano legare indissolubilmente il Barone lussurioso alla sua atroce fine.

190406_Ca_01_Tosca_IvanInverardiSabato 30 marzo, data di debutto del secondo cast, ha visto l’esordio del soprano pugliese Rachele Stanisci nel ruolo della Diva Floria. La sua è una Tosca sanguigna e sincera, capace di trarre dalle insidie dello sparito momenti di assoluta poesia con un canto sempre ben a fuoco e una parola che corre sul rigo musicale in maniera genuina, arricchendosi però di sfumature degne del più luminoso arcobaleno.
Il Cavaradossi di Antonello Palombi dipinge con la voce i fulgidi colori di ciascuna nota tramite un legato morbido, un’emissione mai forzata e un’espressività simile una perla preziosa, il cui ascolto è il regalo più bello che un artista può fare al suo pubblico. Nel tripudio di passione, amore e sofferenza del terzo atto, il canto e l’interpretazione scenica si fondono magistralmente con la voce del soprano, entrambi in uno stato di autentica grazia.
Lo Scarpia di Ivan Inverardi non teme le avversità della linea di canto e, se il suono tiene bene in acuto, non manca di sorprendere anche nella zona più grave. Forse un po’ di naturalezza in più non sarebbe guastata, ma nel complesso la figura infida e laida riesce comunque ad emergere.
Un egregio Graziano Dallavalle è Cesare Angelotti: la voce profonda e rotonda cesella con stile e musicalità i non facili interventi.
Ammirabile anche il Sagrestano di Giulio Mastrototaro per il gusto misurato con cui sa restituire un personaggio di per sé alquanto bizzarro senza cadere nel facile ridicolo. Un bravo Enrico Zara affronta la perfidia di Spoletta con luminoso squillo e ottima baldanza scenica.
Completano il cast Francesco Musino, nel doppio ruolo di Sciarrone e Un carceriere, ed Eleonora Cabras, voce di Un pastorello.
Eccellente la prestazione del Coro dell’Ente lirico cagliaritano, diretto dal M° Donato Sivo, a cui si unisce il Coro di Voci Bianche del Conservatorio “G.P. da Palestrina”, preparato dal M° Enrico di Maira.

 

190406_Ca_03_Tosca_MarcelloGiordaniAmarilliNizzaDomenica 31 marzo sono cambiati i tre protagonisti, rimanendo comunque di alto livello. Cavalleria vuole che si inizi dalla signora, ossia da Amarilli Nizza, la quale, complice la lunga frequentazione del ruolo, sa infondere a Tosca pathos ed emozione. L’attenzione al significato di ogni frase musicale e la calibratura di ogni accento risultando sempre calzanti, evolvendosi insieme al dramma e all’interazione con gli altri cantanti. Nel secondo atto il soprano sfodera la sua vena di “tigre da palcoscenico”, affrontando con piglio energico le direttive registiche e inondando la platea di armonici caldi e suadenti, portatori di violenza, passione e tormento.
Eleganza nello stile canoro anche da parte di Marcello Giordani. La cifra migliore del suo Mario Cavaradossi emerge negli acuti squillanti e luminosi e nella capacità di smorzare il suono, ottenendo dinamiche eteree.
Ultimo di nomina, ma non certo in bravura, Devid Cecconi nella parte di Scarpia. Alle prese con uno dei personaggi pucciniani più ambiti, il baritono toscano centra il bersaglio: vile, subdolo e malefico al punto giusto, ne traduce le viscide intenzioni con un canto tanto graffiante quanto mellifluo. Al di là della dissacrante esplosione del Te Deum, vale la pena di ricordare come sua la voce sappia correre sul filo delle labbra con somma naturalezza nel bellissimo legato della frase “Tosca gentile, la mano mia la vostra aspetta, piccola manina, non per galanteria ma per offrirvi l’acqua benedetta”, eseguito con grande padronanza di fiato ed emissione.
Il teatro, gremito in entrambe le recite, ha reso omaggio agli artisti con sentiti consensi.

190406_Ca_02_Tosca_AntonelloPalombiRacheleStanisci        190406_Ca_04_Tosca_DevidCecconiAmarilliNizza

Crediti fotografici: Ufficio stampa del Teatro Lirico di Cagliari
Nella miniatura in alto: il regista Pier Francesco Maestrini
Nella miniatura al centro: il baritono Ivan Inverardi (Scarpia)
Nella miniatura sotto: il tenore Marcello Giordani (Cavaradossi) e il soprano Amarilli Nizza (Tosca)
Nelle foto di scena: il Te Deum disegnato dal regista Maestrini; Antonello Palombi (Cavaradossi secondo cast) e Rachele Stanisci (Tosca secondo cast); Devid Cecconi (Scarpia primo cast) e Amarilli Nizza (Tosca primo cast)






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Salome o del disorientamento stilistico
intervento di Simone Tomei FREE

20250426_Fi_00_Salome_LidiaFridman_phMicheleMonastaFIRENZE - Aprire con un terremoto emotivo e musicale: è questa la scelta del 87° Festival del Maggio Musicale Fiorentino, che ha inaugurato la sua edizione con Salome di Richard Strauss. Un’opera che, a oltre un secolo dalla sua prima esecuzione, conserva intatta la capacità di turbare, sedurre e respingere con la medesima, irresistibile forza. Non è solo un capolavoro del repertorio novecentesco, ma un gesto teatrale estremo, che ancora oggi interpella e disorienta.
Strauss, nel 1905, non si limitò a superare le sue precedenti prove operistiche: con Salome spalancò un abisso sonoro e psicologico che avrebbe segnato indelebilmente la musica del XX secolo. La celebre osservazione sulla sua capacità quasi unica di fondere l’azzardo avanguardistico con la garanzia del successo popolare coglie nel segno, ma forse non basta a spiegare il sortilegio di quest’opera: Salome è il frutto dell’abilità quasi diabolica di un compositore-stratega nel maneggiare le tensioni più profonde del suo tempo.
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La Euyo prende residenza a Ferrara e Roma

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Parla Leone Magiera
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